Voglio essere Charlie solleva molte domande e invita a continuare ad interrogarsi su quanto è accaduto e sulla reazione che hanno avuto i francesi.

Scritto di getto subito dopo la strage nella redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo, il libro di Chiara Mezzalama, Voglio essere Charlie (Edizioni Estemporanee, 2015), solleva molte domande e invita a continuare ad interrogarsi su quanto è accaduto e sulla reazione che hanno avuto i francesi.

All’apparenza Parigi è tornata alla normalità, ma la scrittrice italiana che vive a Parigi avverte che qualcosa di profondo è mutato. «Dopo la strage, la vita della città ha ripreso il suo corso. Le scuole hanno riaperto le porte, i mercati sono affollati, le strade trafficate, i vecchi giocano a bocce. I fiori che migliaia di persone hanno portato a Place de la République o accanto alla redazione di Charlie Hebdo sono appassiti». Ma le ferite sono ancora aperte e molto resta di irrisolto. «Capita di incontrare per strada dei militari armati come fossero pronti all’assalto – nota Mezzalama -.Ma i fantasmi sono inattaccabili, ed è questo che resta dopo gli attentati. I fantasmi sono la paura della gente, la voglia di chiudersi in se stessi, sono i voti dati all’estrema destra, il malcontento che striscia, il rifiuto dell’altro, l’ignoranza, il razzismo. I fantasmi non sono una prerogativa della Francia, attraversano tutta l’Europa, il Maghreb. Mi ha colpito molto l’attacco del Museo del Bardo a Tunisi. Morire in un museo, mentre si cerca la conoscenza, si ammira la bellezza, si impara la storia, mi sembra gravissimo».

Lo choc provocato dalla strage compiuta a freddo, in nome di Dio, ha reso i francesi sospettosi, “paranoici”, lei scrive. Ma non tutti.  Per esempio, lei racconta di una bambina musulmana e sua figlia che hanno cominciato a darsi la mano per andare a mensa.
Ai bambini non servono i concetti, le spiegazioni teoriche. I bambini rappresentano per me, in questa fase della vita, il punto di partenza di molti ragionamenti. Non è stato facile spiegare loro cosa stava succedendo, mi sono sentita a mani vuote, senza risposte. Ho iniziato a appuntare le loro domande, osservare le loro reazioni. Da questo tentativo, forse ingenuo, di mettere ordine nel caos è nato questo “diario minimo”. È da loro che occorre partire per costruire un dialogo comune che in questo momento sembra molto difficile. Il sospetto, la paranoia nascono dalla paura ma non fanno che aumentarla. Si crea così un circolo vizioso molto pericoloso. Chi viene trattato da “nemico” finisce per diventarlo.

Il motto liberté egalité fraternité, lei scrive, è diventato, in certo modo, la religione francese. E’ stato l’attacco a questi principi a mandare ancora più in crisi i francesi?
L’attentato ha messo in luce la fragilità di molti dei valori che consideravamo acquisiti. Parole consumate come liberté, égalité, fraternité hanno improvvisamente ritrovato il loro senso ma proprio questo ha permesso di osservare la distanza che esiste tra la società e i suoi valori. Le nostre società sono attraversate dall’ineguaglianza. C’è una quarta parola: laicité. Esiste un grande malinteso sulla laicità, viene intesa da molti come un attacco alla religione. Questo rischia di mandare in crisi la Francia. La ministra dell’educazione ha proposto di introdurre a scuola dei corsi di laicité. Credo che avrebbe più senso introdurre dei corsi sulla storia delle religioni. Soltanto conoscendo l’altro lo si può capire. Così come per molti francesi la religione è una questione superata, per molti musulmani non credere in Dio è qualcosa di inimmaginabile. Come si può dialogare partendo da visioni così diverse?

Lei si è trasferita in Francia per scrivere. Ha sentito l’esigenza di allontanarsi per potersi realizzare pienamente come scrittrice?
Sono partita perché quando decidi di cambiare strada, serve farlo anche concretamente. Ho sentito il bisogno di rischiare, perdere l’equilibro sul quale era costruita la mia vita. Allontanarsi dal proprio Paese di origine non può che fare bene, alimenta nuove energie. Posso permettermi di guardare alle cose con un po’ più di distacco. Ed ero anche un po’ stanca del clima pesante che si respira in Italia.

Che cosa è cambiato nel suo modo di pensare la letteratura rispetto a libri come l’intenso Avrò cura di te (Edizioni e/o, 2009) in cui emergevano memorie degli anni vissuti in Marocco?
La letteratura si è presa tutto lo spazio che le ho lasciato. Non so quali effetti avrà sulla mia scrittura, è presto per dirlo, ma ci sarà certamente un cambiamento. Per esempio ho cominciato a scrivere un diario in francese. È un esperimento molto interessante dal punto di vista linguistico. Che delle persone siano state uccise perché scrivevano, disegnavano, si esprimevano liberamente, a poche centinaia di metri dalla stanza dove adesso ogni mattino scrivo, leggo, penso, mi ha colpito profondamente. Mi sono sentita interpellata come scrittrice, oltre che come persona, da quello che è accaduto.

Per la casa editrice e/o uscirà il suo nuovo romanzo Il giardino persiano?
Sì, sto finendo di correggere le bozze del nuovo romanzo che uscirà a luglio. È un romanzo autobiografico ambientato a Teheran nel 1981, quando mio padre fu nominato ambasciatore d’Italia e racconta la storia della mia famiglia alle prese con un paese stravolto dalla rivoluzione islamica e dalla guerra contro l’Iraq. Lo sguardo è quello dell’infanzia e permette di conservare una sorta di candore anche sulla realtà più dura e cruenta. Talvolta mi sorprendo dell’involontaria attualità di ciò che scrivo. Mi sono ritrovata come madre a spiegare ai miei figli molte delle cose che i miei genitori dovettero spiegare a me quando stavamo in Iran. Scherzi del destino!

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