Il ministro della Difesa ha risposto a un'interrogazione sugli aerei da guerra che nessuno vuole più. Le risponde Giulio Marcon, deputato Sel: «Non è vero che portano occupazione in Italia e non è vero che servono alla nostra areonautica»

Il programma di dotazione e finanziamento degli F35, cacciabombardieri americani co-prodotto da altri otto Paesi fra cui l’Italia, dal modico prezzo di circa 155,5 milioni al pezzo, è un dibattito che sembra tanto interminabile quanto inutile. Sono aerei da attacco costosissimi, in un Paese che ripudia la guerra per Costituzione e ha problemi di ingegneria civile, il discorso non dovrebbe neppure nascere. Eppure, eppure, va avanti da anni (del programma in Italia se ne inizia a parlare nel 1996, il “Memorandum of Agreement” per la fase concettuale-dimostrativa con un investimento di 10 milioni di dollari è stato firmato nel ’98). E, nonostante a settembre dell’anno scorso il Parlamento abbia votato ad ampia maggioranza per il dimezzamento della spesa dedicata (da 13 a 6,5 miliardi di euro), il ministro ha fatto finta di niente, la spesa prevista è rimasta quella iniziale, e noi continuiamo a finanziarli con gittate di centinaia di milioni ogni anno.
Oggi in Aula, proprio il ministro della Difesa Roberta Pinotti, ha risposto all’interrogazione sul programma di acquisizione degli aerei F-35, presentata dai deputati di Sel, Donatella Duranti e Giulio Marcon. Nei 4 minuti netti di botta e risposta – dei quali la risposta del ministro ha impiegato una manciata di secondi, molto deciso è stato invece la risposta Marcon, che fra le altre cose, coordina proprio il gruppo dei “parlamentari per la pace” (70 fra deputati e senatori), impegnati sul fronte del disarmo del nostro Paese. Lo abbiamo sentito appena uscito dall’Aula.

Onorevole Marcon, mentre il ministro Pinotti è stato un po’ pallido, diciamo, nella risposta all’interrogazione, Lei ha detto senza mezzi termini che ricopre «un incarico che farebbe meglio a lasciare»: il ministro Pinotti dovrebbe dimettersi?
Certo. Le dimissioni le abbiamo chieste, purtroppo però non possiamo formalizzarle perché per formalizzare la richiesta di dimissioni di un membro del governo servono il 10% dei deputati, quindi 100, noi siamo appena 25… Avevamo proposto ai 5 stelle ai tempi della vicenda Castiglione, ma a quei tempi scelsero di firmare l’altra. Il fatto è che purtroppo non basta che il ministro non sappia svolgere correttamente il suo compito per farla decadere. Deve succedere una cosa anche mediaticamente grave da motivarle.

Il ministro Pinotti ha dichiarato che «gli F35 servono se vogliamo avere l’aeronautica»: è una connessione realistica secondo lei?
È una stupidaggine. Se fosse così, altri Paesi che hanno ridotto o eliminato gli F35 – come il Canada o l’Olanda – sarebbero sprovvisti dell’aeronautica? È una sorta di ricatto. Se rinunciamo al programma, dicono, cala l’occupazione, chiudiamo l’aereonautica… ma sono ricatti senza alcun fondamento. La ricaduta occupazionale per esempio, è molto limitata. All’inizio ci raccontavano che fossero 10 mila occupati, poi divennero 3mila. In realtà sono poche centinaia.
Inoltre, sono aerei che hanno difficoltà (e costi) enormi dal punto di vista tecnologico: quando si alzano bruciano l’asfalto, hanno problemi di tenuta dell’assetto di volo in condizioni climatiche critiche (sono vulnerabili ai fulmini, ndr), anche un singolo casco costa una fortuna e non funziona (in un rapporto, il Pentagono aveva denunciato che sull’F35 il display nel casco di volo non fornisce un orizzonte artificiale analogo a quello reale, a volte l’immagine scompare, e addirittura il radar in alcuni voli di collaudo è risultato non in grado di avvistare e inquadrare bersagli, o si è perfino spento, ndr)…tutte magagne ampiamente documentate.
La stessa Gao (Government Accountability Office), la Corte dei conti americani per intenderci, in più di una relazione ha evidenziato il sovradimensionamento dei costi di questi aerei, definendoli “un brutto affare” (mentre l’ispettorato della Difesa americana ha elencato la bellezza di 61 nonconformities, ndr). Gli F35 sono una grande affare, eccome, ma per la lobby e la grande industria americana. Grazie a noi, e agli altri Paesi che li acquistano, gli statunitensi hanno un’economia di scala tale che l’enormità della spesa che questi caccia comportano, per loro diventa vantaggiosa a fronte del guadagno.

Non parteciperemo ai raid aerei in Siria, pare e per fortuna, eppure continuiamo a comprarli per tenerli nell’hangar. A che pro?
Bella domanda. È un business, dietro, legato a vari soggetti che hanno interessi in questo affare. E poi è un fatto di status: dobbiamo averli come dobbiamo avere la portaerei. Dal punto di vista operativo invece proprio non si spiega. Non servono a difenderci da attacchi, perché sono caccia da attacco, che possono portare ordigni nucleari, con caratteristica «stealth» (sono invisibili ai radar), serve per il bombardamento tattico… Sono aerei fatti per attaccare. Quindi che se ne fa l’Italia di un aereo che è fatto solo per la guerra? L’articolo 11 va a scatafascio.

Insomma non c’è proprio nessun vantaggio?
Rispetto al ricavo, no. Spacciano un ricavo superiore della spesa, ma non è vero.

Nel documento Programmatico pluriennale della Difesa del 2015 (contenente anche gli indirizzi governativi e ritorni economici) non è previsto alcun taglio, né agli armamenti né tantomeno riguardo gli F35, anzi. Quanto togliamo ai cittadini ogni anno per spesa in armamenti? E cosa potremmo farci?

No, anzi, sono aumentati. La spesa complessiva prevista da qui al 2025 va dai 12 ai 16 miliardi. Dopodiché ogni anno c’è una posta di bilancio che mette sul piatto dai 600milioni al miliardo e due. L’anno scorso era 500milioni. Di caccia F35 ne abbiamo già fatti 6, stiamo costruendo anche il 7° e 8°. E poi chissà quanti ancora…mancando completamente la trasparenza sugli accordi, non possiamo saperlo con precisione. Con queste risorse si possono fare tante cose. Come ex portavoce di Sbilanciamoci ti propongo di dare un’occhiata alle proposte della Controfinanziaria 2015.

E comunque, quelle tecnologie sono adattabili al dual use, ovvero possono essere utilizzabili sia per fare aggeggi militari che civili: i Canadair per spegnere gli incendi, per esempio, o gli elicotteri per l’elisoccorso, visto che siamo carenti. La Galilei per esempio, un’azienda di Firenze, anni fa ha diversificato, la sua produzione: dai sistemi di puntamento dei carrarmati, si sono inventati la produzione di tecnologia per macchinari che fanno la tac.
Sono tecnologie convertibili. Come nasce internet, se ci pensi. Per scopi militari poi adattato a uso civile. Diversificare la produzione per l’industria militare è possibile. Invece abbiamo un governo che indebolisce la produzione di tecnologie civili in favore di quelle militari. Si pensi ai treni, delle turbine, che Finmeccanica faceva e ora fa sempre meno.

A Proposito, Renzi non aveva detto, nel 2014, che «la più grande arma per la pace non erano gli F35, ma la scuola»?
Questo lo dicono quando sono davanti agli scout. Poi davanti a Obama e a Finmeccanica se ne guardano bene.

Quale potrebbe essere il modo dell’Italia di intervenire sugli scenari di guerra?
Una domanda da 100milioni di dollari. Bisogna prevenire. Questo è il fatto. Riadattando l’espressione del generale von Clausewitz, per il quale la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, secondo me la guerra è la continuazione del fallimento della politica con altri mezzi. Quando non riesci a costruire situazioni di pace, ma anzi, alimenti i conflitti, ti trovi di fronte a situazioni nelle quali la guerra sembra la soluzione più logica. Ma il risultato è davanti agli occhi di tutti: mi devono spiegare se, dopo 20 anni di interventi in Libia, Siria, Afghanistan, ora c’è più pace o casino? Per l’Iraq vale lo stesso: abbiamo fatto 3 interventi, qual è ora la situazione dell’Iraq? La prevenzione dei conflitti, o per lo meno il loro contenimento, è l’unica arma. Invece noi li abbiamo amplificati.

Impicciarsi di come funzionano le cose, è più forte di lei. Sarà per questo - o forse per l'insanabile e irrispettosa irriverenza - che da piccola la chiamavano “bertuccia”. Dal Fatto Quotidiano, passando per Narcomafie, Linkiesta, Lettera43 e l'Espresso, approda a Left. Dove si occupa di quelle cose pallosissime che, con suo estremo entusiasmo invece, le sbolognano sempre: inchieste e mafia. E grillini, grillini, grillini. Dalla sua amata Emilia-Romagna, torna mestamente a Roma, dove attualmente vive.