Piattaforme, energia, incidenti, perdita di occupazione e altro: siamo di parte, votiamo Sì, ma vogliamo di spiegare perché

Quali sono le piattaforme interessate?
Sono 35 concessioni di coltivazione di idrocarburi presenti entro le 12 miglia, ma solo 26 sono produttive, per un totale di 79 piattaforme e 463 pozzi. Nel 2015 è stato estratto da questi impianti circa il 2,7% del gas e lo 0,9% del petrolio consumato in Italia. Il 40% di queste piattaforme resta in mezzo al mare solo per fare ruggine.

A quanti idrocarburi rinunciamo se vince il sì?
L’esito del referendum riguarda 17 concessioni per un totale di 41 piattaforme. Se si raggiunge il quorum e vince il sì, meno del 26% della produzione di gas naturale e il 9% di quella petrolifera saranno chiuse progressivamente tra il 2017 e il 2027.

Guadagniamo con le royalties?
Le royalties in Italia sono pari solo al 10% per il gas e al 7% per il petrolio in mare. Sono inoltre esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20mila tonnellate di petrolio in terraferma, le prime 50mila tonnellate di petrolio in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti a terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare. Il risultato? Nel 2015, su un totale di 26 concessioni produttive, solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio hanno pagato le royalties. Le royalties si possono poi dedurre dalle tasse: altro regalo sostanzioso a beneficio delle sole imprese.

Quanto fruttano i canoni di coltivazione?
I canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio sono bassissimi: dai 3,59 euro a kmq per le attività di prospezione, ai 7,18 per i permessi di ricerca, fino ai 57,47 euro circa a kmq per le attività di coltivazione. Si dovrebbero prevedere cifre analoghe a quelle adottate da altri Stati europei: almeno 1.000 euro/kmq per la prospezione, 2.000 per le attività di ricerca fino a 16mila per la coltivazione. Così lo Stato ricaverebbe oltre 300 milioni di euro rispetto all’attuale milione.

Alle compagnie vanno sussidi?
Secondo Legambiente ammontano a 246 milioni di euro in investimenti e finanziamenti da enti pubblici (The fossil fuel bailout, ODI): si tratta di aiuti erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa depositi e prestiti e Servizi assicurativi del commercio estero (Sace). Poi c’è la riduzione dell’accisa sul gas naturale impiegato negli usi di cantiere, nei motori fissi e nelle operazioni di campo per la coltivazione di idrocarburi, pari a 300 mila euro nel 2015.

Quanti sono gli occupati?
La Fondazione Eni Enrico Mattei, stima in circa 4.200 unità l’occupazione diretta e indiretta in Val d’Agri, dove si estrae circa il 65% del petrolio nazionale. A livello nazionale la stima oscilla tra le 9 e le 13mila unità, meno della metà (tra le 3.500 e le 5.000 unità) riguardano l’off-shore. L’aumento locale dell’occupazione si registra solo nelle fasi iniziali dei progetti estrattivi. Nella produzione di energia elettrica rinnovabili ed efficienza energetica si creano dieci volte più posti di lavoro di quelli generati dalle fonti fossili.

Le piattaforme rilasciano inquinanti in mare?
Le piattaforme possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti come olii, greggio e metalli pesanti o altri contaminanti. Gli esiti del monitoraggio delle piattaforme che scaricano in Adriatico direttamente in mare, o iniettano/re-iniettano in profondità, le acque di produzione sono chiari. Nel 2012, 2013 e 2014, i dati Ispra pubblicati da Greenpeace mostrano che il 76% (2012), il 73,5% (2013) e il 79% (2014) delle piattaforme presenta sedimenti con contaminazione oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Questi parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014.

Chi controlla le piattaforme italiane?
Greenpeace ha ottenuto dal ministero dell’Ambiente i dati sul monitoraggio di 34 piattaforme delle 135 censite dal ministero dello Sviluppo economico. Sulle circa 100 mancanti, Eni ha fatto sapere che i propri impianti «non emettono scarichi a mare, né effettuano re-iniezione di acque di produzione in giacimento, pertanto non ci sono piani di monitoraggio prescritti e nessun dato da fornire». In pratica, denunciano gli ecoattivisti, sulla gran parte delle piattaforme italiane non c’è nessuna attività di controllo. Eppure è recente la denuncia di un presunto scarico illegale nel pozzo Vega 6 del campo oli Vega della Edison, la più grande piattaforma petrolifera fissa offshore d’Italia al largo di Pozzallo (Ragusa). Qui sarebbe stata creata una sorta di discarica sottomarina con 500mila metri cubi di acque usate nella lavorazione, di lavaggio e di sentina iniettate illegalmente nel pozzo.

Qual è il danno economico in caso di chiusura?
Il danno economico derivante dalla chiusura graduale dei pozzi allo scadere dei permessi non sarebbe enorme, anche perché in molti casi si tratta di impianti che hanno già avuto il loro picco produttivo e che vanno a graduale esaurimento. Secondo il centro studi Nomisma, partecipato da banche e industrie italiane, il vantaggio economico complessivo dal settore sarebbe di circa un miliardo di euro l’anno nel periodo 2000­-2010. Un sì al referendum si tradurrebbe quindi in una perdita sicuramente inferiore a 170 milioni di euro l’anno a regime e via via in diminuzione.

Che cosa avverrebbe in caso di incidente?
In un sistema chiuso come il mar Mediterraneo un eventuale incidente (il rischio è contenuto ma non si può escludere) sarebbe disastroso.

Non vi basta? Volete più dati e particolari? Una versione più lunga e dettagliata di queste risposte sulle trivelle la trovate qui