«Scrivi il mio nome. Io faccio il mio lavoro. Io non ho paura. Il mio nome è Malek Adly» ci aveva detto l'avvocato egiziano per i diritti umani intervistato da Left che ora il regime di Al-Sisi ha messo in carcere

Poco importa quale sia adesso l’origine dell’onda della repressione. Scrivi il mio nome. Io faccio il mio lavoro. Io non ho paura. Il mio nome è Malek Adly. Ne aveva da fare e non ne aveva di tempo l’avvocato che forniva assistenza legale contro le violazioni dei diritti umani in terra egiziana, ma ne trovò per concedere un’intervista a Left nei giorni che seguirono l’omicidio Regeni. L’uomo che non aveva paura e non voleva nascondere il suo nome è stato arrestato ed è scomparso nelle fauci di Al Sisi.

Poco importa quale sia l’origine dell’onda di repressione che colpisce il Cairo o se gli epicentri delle ondate di oppressione di ogni libertà individuale e collettiva siano più d’uno: i poteri non di uno ma più mukabarat, servizi segreti del Nilo, di Al Sisi e dei suoi fedeli o di altri uomini neri, le cui ombre si fanno sempre più lunghe e sempre più grigie sopra e sotto le piramidi. Anche Basma Mustafa, la prima giornalista ad intervistare i parenti degli “assassini” di Regeni – serviti morti alla richiesta di verità italiana dalla procura di Giza dopo uno scontro a fuoco con la polizia – ha intorno i polsi due manette strette. Insieme a lei tanti altri giornalisti, i giovani del Movimento 6aprile, i socialdemocratici, l’attivista Sanaa Seif e Ahmed Abdallah, della Commissione egiziana per i diritti e libertà che tiene conto, uno dopo l’altro, in una lista unica tutti i desaparecidos della dittatura egiziana. Su quei fogli c’era anche il nome di Giulio Regeni.

Sono oltre cento gli arresti di manifestanti in città dove poliziotti, agenti, soldati hanno manganellato e soffocato con i lacrimogeni e i proiettili di gomma una piazza vuota che sta tornando Tahrir lungo altre rive ed altre strade, che sa essere Tahrir anche quando Tahrir è blindata, che sa essere Tahrir dall’Alto al Basso Egitto. Bastava avere un cellulare e riprendere la scena per registrare quello che stava succedendo per finire prelevati dalle divise non solo nella Capitale ma in ogni città d’Egitto dove sempre più popolo torna popolo. Servono camion e blindati per tutelare un consenso ormai sempre più difficile da fingere al rais che ha concesso due isole – Tiran e Sanafir- alla petromonarchia dell’Arabia Saudita accendendo un’altra miccia nella polveriera del suo Paese. Ad Al Sisi e al suo sistema, più aumenta la paura di perdere il controllo, più diminuisce la paura di mostrare il regime pubblicamente per quel che è.

Se l’universo europeo dovesse dimenticare, il cosmo arabo continuerà a ricordare. Vite lontane e morti parallele. Medesime. Se l’italiano Giulio è un egiziano per gli egiziani perché ne ha condiviso il destino e la sorte, la fine dell’attivista di Alessandria Khaled Abdel Rahman sta diventando sempre più europea. Scaricato come carne morta dopo essere stato torturato in mezzo alle dune del deserto, dopo le scariche elettriche sui genitali, Khaled è il simbolo di quello che potrebbe essere successo a centinaia di scomparsi di cui non si ha più notizia o contatto. Di cui forse non è stato ritrovato ancora il cadavere.

Poco importa quale sia adesso l’origine dell’onda della repressione. L’unica cosa certa che si sa delle ondate di terrore sono le rive e le vittime che bagnano e al Cairo oggi sono i nuovi Giulio. L’arresto Regeni è datato 25 gennaio, quello di Malek e degli altri è datato 25 aprile. Dove non è un anniversario vuoto da celebrare per la volgare passerella politica in un Paese in coma, è ancora giorno di lotta per la Liberazione.