Esegesi del documento del ministro Lorenzin. Sotto accusa, la fine di modelli di identificazione tradizionali, libertà e realizzazione

Dopo le polemiche suscitate dalla pessima campagna per il #fertilityday, in programma per il 22 settembre, la ministra Lorenzin si è difesa twittando: La campagna non è piaciuta? Ne facciamo una nuova. #fertilityday è più di due cartoline.

E in effetti la ministra ha ragione: oltre alle cartoline, c’è di più. E di peggio. Anche di quello che la ministra ha incredibilmente dichiarato a Sky Tg24, in un cortocircuito totale: «Tra l’altro puoi farmi gli asili, ma se poi sei sterile e non riesci ad avere figli non abbiamo i bambini da metterci dentro». Andando a leggere il Piano nazionale della fertilità, i dubbi sollevati dalla campagna di comunicazione legata al progetto ministeriale non solo vengono confermati, ma addirittura peggiorati.

Se, infatti, è condivisibile e apprezzabile l’obiettivo di informare i cittadini italiani sugli aspetti sanitari e biologici legati a questo argomento, a destare più di qualche preoccupazione è il nucleo centrale del documento, cioè il contributo del “tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità”. Si tratta di una lunga e dettagliata disamina degli aspetti giuridici, epidemiologici, statistici, sociali e psicologici “in materia di maternità e famiglia.”

Già dalle premesse, infatti, è chiaro che il problema della natalità è caricato tutte sulle spalle delle donne. La prima nota stonata, però, è quella della coerenza politica. Leggiamo a pagina 20 del piano:

In questo senso impegnarsi per un welfare e anche per progetti di sostegno economico alla natalità (vedi bonus bebè, detrazioni fiscali, forme di lavoro flessibile, maggiore uso del congedo parentale per gli uomini, presenza capillare di nidi aziendali, ecc) non deve essere visto come una sorta di “compensazione” per il “disagio”, ma come un atto di responsabilità e giustizia sociale.

Sempre su questo argomento, a pagina 32 è scritto:

A queste considerazioni…, si lega strettamente la mancanza di un sistema di welfare che punti sulla conciliazione tra vita lavorativa e genitorialità.

Il governo di cui la ministra Lorenzin fa parte ha pesanti responsabilità, in questo senso. Il lavoro del suo collega Poletti tutto lascia intendere, tranne che si prefiguri un quadro di più facile conciliazione tra vita lavorativa e genitorialità.

Ma lasciamo per un attimo da parte la schizofrenia di un Governo che critica se stesso e le sue politiche come se nulla fosse e come se non ci fossero conseguenze, si tratta in fondo di cose a cui lo stesso presidente Renzi ci ha abituato. Appena annusato il flop del #fertilityday ha prontamente scaricato l’intera operazione dicendo di non esserne a conoscenza, pur avendola approvata mesi fa, come riportato dagli atti della Presidenza del Consiglio dei Ministri (comunicato stampa n. 124, 28 luglio 2016).

Lasciamo perdere questa follia nella follia, perché le cose da leggere in questa piccola galleria degli orrori sono molte, e forse persino più gravi.

Sistema di welfare e condizioni socio-economiche della nostra popolazione (specie quella più giovane, in questo caso) sono, infatti, marginali, agli occhi di chi ha stilato il piano nazionale per la fertilità. È il documento stesso, a illustrare in maniera molto precisa quale sia il punto di vista che ne sta alla base, un esempio è quanto scritto a pagina 31:

I giovani tendono, ormai, a procrastinare le scelte decisive. Da un punto di vista psicologico sembra diffuso un ripiegamento narcisistico sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo.

È quasi incredibile a leggersi, tale è la gravità di quanto scritto. Una visione della società che sarebbe apparsa conservatrice e retrograda persino 50 anni fa. Non paghi, gli estensori del documento proseguono e le loro argomentazioni vanno di male in peggio, sempre a pagina 31:

Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità.

L’attacco alle donne e ai progressi nella loro condizione prosegue imperterrito, a pagina 33:

Col tempo, invece, sempre più donne hanno raggiunto livelli di istruzione elevati fino a superare, anche se di poco gli uomini, negli anni di studio, concentrandosi sul raggiungimento di una sostanziale parità con il genere maschile.

Ecco che il “tavolo consultivo” ci suggerisce la prima vera causa del basso tasso di natalità del nostro Paese: il miglioramento dei livelli di istruzione delle donne italiane. Il suggerimento, poi, assume i contorni di una vera e propria tesi, a pagina 35:

L’analisi non può prescindere dal mettere in relazione la tematica più generale dell’istruzione con il ritardo nei tempi della maternità/paternità. La crescita del livello di istruzione per le donne ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione di nuovi nuclei familiari, sia un vero e proprio minore investimento psicologico nel rapporto di coppia, per il raggiungimento dell’indipendenza economica e sociale.

Le donne che studiano mettono su famiglia e fanno figli troppo tardi, quindi. E investono meno nel rapporto di coppia (!), tutte volte come sono alla loro realizzazione (che assume addirittura i tratti di un’inaudita indipendenza), cosa che evidentemente non vale per gli uomini, che non dovendo figliare fisicamente non hanno di questi pensieri e di queste responsabilità.

Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? (pagina 37)

Il solo fatto di usare il verbo “scortare” per descrivere l’uscita di casa (dalla cucina?) delle donne è sufficiente per comprendere come tutta l’impostazione del “giorno della fertilità” sia sbagliata. L’idea che le donne siano “sospinte” verso “ruoli maschili” le confina in una perenne minorità, come se le donne, una volta uscite di casa, non potessero fare altro che trasformarsi in maschi.

Vale anche per chi assume incarichi politici, cara ministra? Il ministro è un “ruolo maschile”? Forse il ministro può aiutarci a capire. Contrapporre il lavoro e l’uscita di casa alla maternità poi è imperdonabile, da ogni punto di vista. Il tentativo di inserire in un contesto tecnico e in un’analisi di tipo scientifico opinioni degne del peggior conservatorismo patriarcale è vergognoso. Il documento, infatti, presenta buone basi teoriche sul piano sanitario, statistico ed epidemiologico, ma queste sono irrimediabilmente inquinate da un substrato ideologico reazionario, non degno di un’istituzione come il Ministero della Salute.

Vale la pena ripeterlo, il tema della natalità nel nostro Paese è senza dubbio meritevole dell’attenzione delle istituzioni, così come lo è quello dell’educazione sanitaria e del potenziamento dei sistemi di welfare a supporto del legittimo desiderio delle nostre cittadine e dei nostri cittadini di avere figli, nei modi e nei tempi da essi preferiti. Il governo s’impegni a rimuovere gli ostacoli sociali, economici e sanitari che impediscono a chi vuole figli di averne, invece di avanzare ipotesi discutibili sulle motivazioni private di chi sceglie di non averne.

Perché se “davvero” s’intende (come si legge a pagina 1, punti 4 e 5) «operare un capovolgimento della mentalità corrente» e “celebrare” una «rivoluzione culturale», occorre abbandonare stereotipi reazionari per guardare invece alla possibilità di trasformare la società, di renderla più giusta. E se è vero che, come ha detto qualcuno, «il Ministero della Salute non fa le politiche del lavoro e neanche i servizi di welfare», dobbiamo ribadire che magari non le fa, ma se ne dovrebbe occupare e ne dovrebbe anche tener conto. Lavoro, welfare e cultura sono determinanti primari per la Salute degli individui e della cittadinanza tutta. Un ministro che non se ne occupa è un ministro delle strutture sanitarie, non della Salute.

*Francesco Foti è membro del Comitato organizzativo di Possibile