Chi sono, cosa pensano e perché sono entusiasti della candidatura del miliardario newyorchese? Lo abbiamo chiesto ad Alxander Zaitchik, che ha passato mesi a parlare con i seguaci di Trump e ci ha scritto un libro

Donald Trump sta vivendo le settimane peggiori della sua esperienza da candidato presidente. Prima ha perso malamente il dibattito contro Hillary Clinton e l’ha attaccata in maniera inconsulta a partire dal giorno dopo. Poi l’uscita pubblica dell’ex miss Universo Alisia Machado sul fatto che il miliardario, che gestiva il concorso, l’abbia chiamata Miss Piggy (e molto altro). La tappa successiva è stata la rivelazione del New York Times che ha scoperto che il miliardario non ha pagato le tasse per 18 anni grazie a un utilizzo abile dei buchi del sistema fiscale americano e a enormi perdite dichiarate nel 1995. Infine l’audio in cui TheDonald ci spiega come le donne non siano in gradi di resistergli perché lui è una celebrità e che lui le bacia prima di parlarci – il tutto detto in maniera più volgare di così. Infine il dibattito di stanotte che tutti gli osservatori dicono essere una specie di gestione del danno: Trump ha limitato i danni, evitato di fare gaffe e dato argomenti al suo pubblico.

Già, chi sono i suoi sostenitori e perché gli piace una persona così incoerente, priva di idee concrete sul futuro, che promette una riforma delle tasse che beneficerebbe quelli come lui e non i bianchi maschi lavoratori e pensionati che lo ammirano? Al tema abbiamo dedicato un lungo articolo sul numero 38 di Left, lavorando per il quale avevamo parlato anche con Alexander Zaitchik, che ha passato diversi mesi a parlare con le persone presenti ai comizi di Trump in alcune zone depresse degli Stati Uniti. Il frutto del suo lavoro è un libro di grande interesse The Gilded Rage, a wild ride through Trump’s America. Ecco la conversazione intera con l’autore e giornalista.

People cheer as Republican presidential candidate Donald Trump speaks at a rally Tuesday, Sept. 27, 2016, in Melbourne, Fla. (AP Photo/John Locher)
Un comizio di Trump a Melbourne, Florida (AP Photo/John Locher)

Chi sono le persone con cui hai parlato? Sono davvero una massa di diseredati, spostati e stravaganti americani?
Sono stato in diverse zone che potrei definire aree economiche depresse nel Nord est, nel west e altrove. Lontane tra loro ma simili in termini di come sono state colpite duro dalla globalizzazione. L’economia americana era organizzata attorno alla middle class, c’era buon lavoro sindacalizzato in questo Paese e molti tra coloro che votano per Trump sono cresciuti in quel mondo. E quando ascoltano lo slogan “Make America great again” è a quello che pensano: un mondo dove la stabilità economica era moneta corrente, si cresceva economicamente anche se in famiglia anche se uno solo lavorava. Non è tanto che pensano al tempo in cui c’erano meno immigrati, meno diritti per le donne o per le minoranze. Il fatto è che la maggioranza delle persone di questo Paese oggi cammina economicamente su un filo, da un mese all’altro, se per qualche ragione salta un salario, non c’è una base che consenta di continuare a pagare l’assicurazione sanitaria, la rata, le spese correnti.

I nuovi lavori sono soprattutto nei servizi non qualificati: si viene facilmente licenziati, non c’è rappresentanza sindacale, si guadagna meno. Una situazione che ha generato quella che definirei “disperazione politica”. Le persone si rendono contro che entrambi i partiti sono stati i campioni di quell’agenda pro-liberalizzazione dei commerci internazionali a cui imputano la loro condizione attuale. E Trump è l’unico che ne parla, che sembra genuinamente arrabbiato per come vanno le cose. E quindi poco importa, per queste persone, se è un cialtrone e se ha mille altri problemi da nascondere.

Se mi si chiede di ridurre a una la causa del sostegno per il candidato repubblicano – ce ne sono altre – io dico che è questa. Anche se molti, nei media, si rifiutano di accettare l’idea. Se vai a un comizio di Trump è più facile vedere i personaggi strani, quelli che urlano brutte cose razziste e prendere appunti su quelli. La copertura mediatica dei sostenitori di Trump avviene ai comizi, ma quando prendi le persone, fai abbassare loro la guardia, il pensiero che esprimono è meno gladiatorio, più articolato. Ne ho visti di razzisti, radicali di destra e strani, ma in fondo alle primarie Trump ha preso 13 milioni di voti: non sono tredici milioni di estremisti stravaganti. Di questo i partiti non vogliono sentire parlare: il tema del libero commercio è sempre stato bipartisan e la faccia del Nafta (il Trattato dio libero commercio con Canada e Messico), che per le persone di una certa generazione è l’inizio dei guai, è quella di Bill Clinton (come del resto l’abolizione del Glass-Steagal Act che ha cancellato la distinzione tra banche d’affari e di risparmio). Tutte le grandi riforme neoliberiste sono figlie di iniziative democratiche di quegli anni. Meglio negare il problema – che pure è un’ossessione dei democratici sul campo, che battagliano con il consenso dei lavoratori – e dire che i sostenitori di Trump sono un branco di fanatici. È più facile dire e pigro “lo scontro è tra razzisti contro non-razzisti, noi siamo migliori” che affrontare la difficile questione: come siamo arrivati a questo punto e cosa dobbiamo fare per cambiare?

Republican presidential candidate Donald Trump greets supporters as he arrives for a campaign rally, Monday, Oct. 3, 2016, in Loveland, Colo. (AP Photo/ Brennan Linsley)
A Loveland, Colorado (AP Photo/ Brennan Linsley)

E gli immigrati? Davvero c’è questa ossessione per l’immigrazione, per la necessità di costruire un muro?
In Arizona, Texas, New Mexico, nelle zone al confine con il Messico dove sono stato il tema è un altro: c’è gente che parla di economia, anche laggiù, che tutti hanno patito gli effetti della crisi tranne chi lavora nell’hi-tech o in qualche classe urbana professionale. Tutti devono pagare i costi crescenti dell’università. Laggiù però ho trovato una certa distanza tra la retorica trumpiana del muro al confine e quel che le persone che ci vivono pensano. Chi vive lungo la frontiera ha un’idea più articolata dell’immigrazione, sa di cosa parla, magari gli è capitato di avere a che fare con il traffico di droga e la criminalità che vive di e sul confine, di trovarsi nel mezzo di una situazione pericolosa, con gente armata – tutti problemi reali – ma non crede alle fandonie sul muro. Più in generale, sulle sparate più grandi di Trump, molti dei suoi sostenitori riconoscono che si tratta di balle, esagerazioni, magari ti spiegano che nemmeno lui ci crede ma il loro entusiasmo viene dall’ambiente, dall’energia che il miliardario genera nei suoi comizi: «Ok, lo so che non faremo il muro, ma sull’immigrazione cambierà le cose, non deporterà i musulmani, ma fermerà i rifugiati».

È un tema complicato: non puoi evitare il tema della razza se parli dell’appeal di Trump, razzisti tra i suoi sostenitori ce ne sono, altri lo sono in maniera non esplicita e, comunque, non credo sia quello ciò che genera il consenso nei confronti del candidato repubblicano. Ma il tema esiste e c’è ovunque: la questione della razza è qualcosa che c’è, è la per dividere, separare i lavoratori sindacalizzati, eccetera. È una costante. C’è una po’ di tribalismo bianco e preoccupato nella gente di Trump. Ma non è il fattore di traino del consenso. E poi, sarà bene non dimenticarlo, c’è pieno di democratici che sono molto liberal e attenti al razzismo che vivono in suburbs che sono bianchi al 99% e a cui non piacerebbe che le loro case perdessero valore a causa di una trasformazione demografica del loro vicinato. Non lo ammetterebbero mai: ma non sono solo i sostenitori di Trump a voler difendere il valore della proprietà – che in questo Paese è spesso determinato da fattori razziali. I sostenitori di Trump detestano la sinistra liberal proprio a causa di certe posizioni astratte, giudicanti. Se parli al progressista liberal medio che vive in un quartiere cool ti dirà: “c’è brutta gente razzista, noi siamo una specie di angeli bianchi non razzisti che guardano gli altri dall’alto”. Non è il modo migliore di affrontare la questione e non è la realtà. Quando Trump attacca la correttezza politica mette il dito nella piaga, l’idea che ci sia qualcuno di puro, sano, migliore è pura finzione, nessuno nel Paese ci crede, lui lo sa e ne approfitta, sfidando queste figure iconiche della sinistra che giudicano tutto e tutti – ed è facile sostenere che lo facciano da una posizione di privilegio.

In questi mesi è uscito un libro importante sulla storia dei bianchi, reietti, americani, (Nancy Isenberg, White Trash, The 400 year history of class in America). I seguaci di Trump sono quelli di cui parla Isenberg?
White trash è un modo di derubricare la gente senza terra nei primi decenni della storia del Paese, Isenberg ricostruisce quella storia in maniera egregia da allora fino alla cultura televisiva contemporanea che c’è dietro: persone senza terra, non scolarizzate e tenute ai margini. Ce ne sono molti così e il libro di Isenberg è utile non tanto a capire i sostenitori di Trump – non parla di quelli – ma per intuire cosa c’è dietro il risentimento di una parte dei lavoratori più poveri nei confronti delle élite liberal di sinistra delle metropoli costiere dai quali si sentono spesso giudicati. Scegliere Trump significa anche rivendicare la propria appartenenza: siamo così, siamo gente che lavora sodo, beviamo birra e spesso siamo grassi. C’è una base di white trash, il 79% dei bianchi senza istruzione dice che voterà Trump. Ma molti che sono invece piccola borghesia, imprenditori medi che vivono comunque in una comunità in crisi e la cosa ha un impatto sulle loro attività, se sono fornitori delle industrie tradizionalmente forti e oggi in crisi. O comunque la crisi ha un impatto sulla loro vita sociale, hanno amici che se la passano male.
C’è questo ferramenta della West Virginia con cui parlo nel mio libro sconvolto dall’epidemia di anti-dolorifici ed eroina che ha colpito tanta gente finita disoccupata ed è convinto che Trump farà qualcosa per fermarla. Ora, la crisi da overdose è figlia delle politiche di Big Pharma dei decenni passati, non della disoccupazione, ma le risposte di Trump lo convincono: lui farà passare la disoccupazione, lui farà passare questa ondata di tossicodipendenze.

Se l’economia funzionasse per tutti, se non ci fosse questa forbice nelle diseguaglianze, non credo che vedremmo tutto questo sostegno per lui. L’insicurezza e la paura sono ciò che, mi pare, alimenta una buona parte del consenso per i partiti di destra in Europa, di questi tempi. Mi pare che qui il tema sia la paura del futuro nel senso delle prospettive. Trump non avrebbe ottenuto la nomination se le persone non fossero spesso in bilico tra il sopravvivere dignitosamente e finire indebitati.