Il ministro Pinotti, dopo una recente visita in Arabia Saudita per stringere accordi, si lava le mani della questione delle bombe fabbricate in Sardegna, dicendo che è materia che spetta al ministero della Difesa. La denuncia di Amnesty International e della Rete italiana per il disarmo.

Ancora morti fra i civili nel bellissimo e martoriato Yemen. Ancora una volta un attacco saudita pianificato a freddo. Questa volta  i caccia F15 della Royal Saudi Air force hanno bombardato una zona di Sana’a dove si svolgeva un’affollata cerimonia funebre per la morte del padre di un ministro del governo. Fra i 150 morti c’è anche il sindaco della capitale yemenita.

Alla cerimonia partecipavano molte famiglie con i bambini. Un attacco simile era stato già compiuto al mercato di Sana’a, il luogo più frequentato della città yemenita. Ed è stata una strage. L’intromissione saudita nel governo del Paese è passata da tempo dalla manipolazione agli attacchi diretti e deliberati contro la popolazione civile. La tecnica è sempre la stessa, gli F15 partono dall’Arabia Saudita colpiscono l’obiettivo e tornano indietro, lasciando sul terreno cadaveri di civili e i resti  di ordigni MK83, un modello prodotto da Rwm Italia. Attacchi che l’Occidente osserva in silenzio,  nascondendo molte responsabilità. Sono tedesche e italiane, infatti, le bombe che i sauditi rovesciano su quella che fu l’Arabia Felix, dove la fame sta diventando la maggiore causa di morte fra i bambini insieme ai bombardamenti.

Il ministro della difesa Roberta Pinotti ha detto di non sapere nulla di quelle bombe. «È il ministero degli Esteri ad autorizzare o meno la vendita di armi», ha risposto a un giornalista de Il Fatto che le chiedeva delle bombe fabbricate in Sardegna e spedite in Arabia Saudita  (Ecco il video). Come se il ministero della Difesa e quello degli Esteri non facessero entrambi parte del governo Renzi. Una risposta che lascia ancor più basiti vedendo le foto della recentissima visita del ministro Pinotti in Arabia Saudita per stringere accordi. Un comunicato congiunto di Amnesty International e della Rete italiana per il disarmo già il 20 novembre 2015  definiva inaccettabili le dichiarazioni in  cui il ministro della Difesa Pinotti, definiva regolari  le forniture di bombe aeree all’Arabia Saudita e «nel rispetto della legge».

Da allora ad oggi sono pochissime le voci di protesta, ancor meno sono stati i giornali italiani che hanno parlato del conflitto in corso in Yemen ormai da anni.

Le grandi manifestazioni di piazza, durante la stagione delle primavere arabe, costrinsero il presidente Saleh a lasciare il posto che occupava dal 1978. Le rivolte a Sana’a furono guidate da studenti, fra loro molto donne. In mezzo a loro c’erano anche ribelli Houthi, musulmani sciiti che durante i lunghi anni di governo Saleh erano stati vessati ed emarginati come minoranza. Oggi il quadro della situazione del Paese è estremamente frammentato e complesso come avevamo cercato di raccontare nell’agosto scorso ( Rompiamo il silenzio sullo Yemen) .

Tra il 2011 e l’inizio del 2012 è cominciata una complessa transizione politica guidata  dal  Consiglio di Cooperazione del Golfo, di cui fanno parte Arabia Saudita,  il Bahrein, gli  Emirati Arabi Uniti,  il Kuwait, l’Oman e il Qatar, di fatto però pilotata dall’Arabia Saudita.  Dopo le dimissioni forzate di Saleh  (che tuttavia è presto rientrato a Sana’a continuando ad esercitare una grossa influenza e a guidare il suo partito9  è stato eletto presidente Abdel Rabbo Monsour Hadi con cifre da plebiscito. Ma l’appoggio ricevuto dai Sauditi ha subito indebolito la sua posizione agli occhi degli yemeniti, popolo indipendente e fiero,  suddiviso in molti clan, ma con sunniti e sciiti che hanno sempre vissuto fianco a fianco. Al-Quaeda e più di recente l’Isis, che si contendono soprattutto postazioni strategiche nel Sud del Paese, non hanno mai fatto presa su larghi strati della popolazione civile. Sono sempre rimasti gruppi isolati. Anzi la popolazione yemenita è la prima ad essere colpita dagli attacchi dei fondamentalisti.  Le comunicazioni sono difficili fuori dalle grandi città, interi villaggi sono senza acqua potabile e generi di prima necessità.

In parte diversa  è la situazione nella bellissima Sana’a dove  i ribelli sciiti Houthi sono diventati egemoni dal 2014 costringendo il presidente sunnita Abd Rabbo Mansour Hadi a fuggire in Arabia Saudita. La risposta dell’Arabia Saudita è stata militare fin dal marzo 2015. Ben presto hanno conquistato Aden, strategico porto sul Mar Rosso, e hanno fatto  rientare Hadi, ma non sono riusciti  a togliere Sana’a dalle  mani degli Houthi. Verso i quali ha tentato un avvicinamento l’ex presidente Saleh, l’antico avversario,  costretto a questa strana alleanza dalle circostanze. Cosa resta della Repubblica yemenita? Difficile dire.  Sta svanendo l’unità nazionale affermata a fatica nel 1990, dopo che il sud del Paese aveva conquistato nel 1967 l’indipendenza ribellandosi ai coloni inglesi e instaurato un governo d’ispirazione comunista. Oggi  lo Yemen non sembra nemmeno più diviso fra nord e sud come era un tempo, ma addirittura diviso in tre o quattro parti. La popolazione civile è allo stremo; colpito  a morte lo straordinario patrimonio storico artistico yemenita che risale ai sabei e alla leggendaria regina di Saba nel X secolo a.C. Ma nello Yemen oggi  la Russia e altre potenze europee non hanno interessi e non ci sono più ricchezze da saccheggiare e spartirsi. Così l’Occidente volta la testa dall’altra parte.