La rete pullula di articoli bufala che spiegano che Soros finanzia le manifestazioni anti Trump. Proviamo a spiegare perché è una bufala (alimentata dalla destra Usa) e perché la cosa abbia qualcosa di inquietante

Qualcuno ricorda Ed Wood? È un film di Tim Burton che racconta la storia del regista horror e fantascientifico di serie B. In una scena in cui si mostrano le riprese di un filmaccio, c’è Bela Lugosi, interpretato da Martin Landau che con un faro di luce sotto grida “Sono il burattinaio, muovo i fili”. Ecco, oggi il burattinaio del mondo è George Soros. E non ve ne foste accorti andate a leggere l’articolo pubblicato da Linkiesta e firmato dall’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana Fulvio Scaglione che ci spiega che (titolo): C’è lo “squalo” Soros dietro le rivolte anti Trump. Varrà la pena citarne un passaggio: «Popolo sdegnato, cittadini in ansia per le sorti del Paese, movimento spontaneo di gente perbene? Qualcuno così ci sarà pure, per carità. Ma la realtà è quella che è rapidamente saltata fuori: file e file di pullman noleggiati per spostare i manifestanti da un posto all’altro, paga oraria tra 15 e 20 dollari l’ora per gridare «Not my president» contro Trump, panini e bibite gratis». Poi sono arrivate le molotov, caos – scrive ancora Scaglione – ricorda qualcosa? La Siria e l’Ucraina, ci spiega l’articolo, che implicitamente ci indica come Soros sia dietro ogni cosa si sia mossa nel mondo da qualche anno a questa parte. Il burattinaio. Difficile non farsi venire in mente qualche vignetta pubblicata negli anni ’30 in Germania, quelle che raffiguravano un essere spregevole, con il nasone, vestito di nero e i tentacoli di una piovra, intento a prendersi il mondo.

Il link non lo aggiungiamo: regalare click alle bufale non è il nostro mestiere, ci ha pensato il blog di Beppe Grillo, a postarlo e regalare gloria e moltiplicare la bufala per mille. Di articoli così ce ne sono centinaia in rete. Solo che Linkiesta era nata nel 2010 con un’altra idea di cosa debba essere giornalismo e per qualche anno ha svolto questo compito (poi è cambiata la ragione sociale).

Bene, ma a raccontarla così è pura fantasia anche la nostra. Andiamo per punti

Primo. La descrizione delle manifestazioni. A differenza di Scaglione, il giorno dopo le elezioni americane, chi scrive era a New York City. Precisamente a Union square, dove c’erano decine di migliaia di persone e nessun pullman con i panini e le bibite. Tra l’altro, quel tipo di massa di manovra delle political machines fino agli 70 ed era composta dai poveri delle comunità immigrate, i lavoratori sindacalizzati di alcune categorie, le minoranze. Oggi non funziona più così e in piazza, a New York c’erano gli studenti e i molto liberal ma tendenzialmente benestanti cittadini newyorchesi, che non escono a marciare sotto la pioggia per i panini e le bibite. Già, direte voi, ma Scaglione parla di Portland (dove neppure è stato a vedere). Benone: Portland, Oakland, Seattle sono quei posti dove la cultura di sinistra è più radicale e che le manifestazioni trascendano è più facile. Tra le manifestazioni di Black Lives Matter di questi anni, quelle di Oakland sono quelle finite più spesso in scontri (è qui che nel 1966 è nato il Black Panther Party. A Portland il 70% degli arrestati dopo gli scontri non ha votato. Perché? Perché sono giovani di estrema sinistra che protestano contro Trump ma non amano affatto Hillary Clinton.

Secondo. La politica americana costa cifre spaventose. Costa troppo. E per questo i finanziatori sono una parte determinante. E spesso condizionano le scelte del Congresso. Una delle ragioni per cui la politica Usa costa cifre spaventose è la cancellazione, da parte della Corte Suprema nel 2010, delle poche regole che una legge scritta da Russ Feingold e John McCain conteneva. Si tratta di una sentenza famosa, Citizens United Vs Federal Election Commission, che i democratici dicono di voler superare e tornare a delle regole dignitose. Del resto, sia Obama che Bernie Sanders hanno mostrato negli anni di saper raccogliere molti fondi anche attraverso le piccole donazioni. Dopo, ma anche prima di quella sentenza, circolavano troppi soldi nella politica Usa. Ad esempio, George Soros spese una valanga di soldi nel 2004 per cercare di far vincere John Kerry contro George W. Bush. Fossero serviti, sarebbero stati soldi spesi bene. Certo, molto meglio una politica nella quale non servono i soldi dei miliardari, ma finché quella è la legge. Attenzione: i soldi spesi sono riportati, non è un segreto e non servono leak per scoprirlo (che c’è un altro articolo de Linkiesta che parla di “file segreti” che rivelano come il filantropo Soros manovri il mondo, non c’è una cosa che non sia uscita sui giornali).

Terzo. L’altra sera a Washington si è tenuta una riunione della Democratic Alliance all’hotel Mandarin. La Alliance è una organizzazione che coordina i finanziamenti di diversi straricconi liberal (che in America vuol dire di sinistra) che quando si riunisce ragiona sulle strategie. Alla riunione c’erano Nancy Pelosi, campionessa della raccolta fondi e in lotta per rimanere capogruppo democratico alla Camera, il candidato di sinistra alla leadership del DNC Keith Ellison e molti altri. La discussione è stata accesa e si è ragionato su come impiegare le risorse: molti democratici hanno spiegato che a loro modo di vedere la strategia era troppo dedicata alla mobilitazione della coalizione di giovani e minoranze e toppo poco verso i lavoratori bianchi. Sacrosanto. Alla riunione c’era anche Soros, segno che sì, il miliardario è preoccupato dalla presidenza Trump. Come anche qualcun altro. Il che non rende Soros un santo – è uno speculatore finanziario – e neppure il burattinaio. I miliardari repubblicani sono altrettanti se non di più, alcuni, come i fratelli Koch, sono diventati stranoti proprio per la loro propensione a spendere per imporre un’agenda di destra al Paese. In questo senso, Soros, è l’altra parte della barricata. In entrambi i casi le donazioni sono stranote e non c’è nulla di segreto e oscuro. Di sbagliato, sì: la politica americana costa troppo e il sistema è pessimo. A essere più pericolose però sono le donazioni medie, quelle ai candidati al Congresso, che determinano spesso l’agenda. Io banca o industria locale, contribuisco alla tua elezione e tu, poi, mi proteggi, voti contro le regole che mi colpiscono e così via.

Quarto. Nell’articolo si dice che le manifestazioni sono organizzate da MOveOn.org. E che questa a sua volta è finanziata da Soros. Vero e non vero, a New York c’erano le facce di Occupy Wall Street e MoveOn e altri davano anche loro l’appuntamento. La seconda è proprio falsa: MoveOn ha preso soldi da Soros nel 2004, quando pagò parte della campagna pro Kerry. Nel 2016 Soros ha donato qualche milione a Clinton. MoveOn invece sosteneva Bernie Sanders fino all’ultimo respiro. Ma controllare è un esercizio complicato (potete farlo qui).

Quinto. Queste notizie, cercatele in rete, sono postate nella maggior parte dei casi da siti che postano bufale, esagerazioni, interpretazioni distorte. Sono i siti della destra americana alla Breibart.com, diretto dallo stratega di Trump Steve Bannon per i quali l’iperbole e la distorsione della realtà sono la norma. Da una settimana circa leggiamo di come i social network abbiamo contribuito alla mala informazione sul ciclo elettorale Usa – non ci spingiamo a dire che ne hanno condizionato l’esito, come sostiene qualcuno del clan Clinton. Senza entrare in particolari anche su questo, il fenomeno è noto: i titoli più forti, le interpretazioni più dietrologiche, quelle che confermano le certezze su come e quanto il mondo della politica sia corrotto e al soldo di poteri oscuri vengono cliccati e condivisi di più. E creano un rumore di fondo, consolidano certezze. Il caso di Soros e la diffusione di queste notizie bufala in Italia è un caso tipico. Sarebbe bello invece cercare di fare informazione. ma costa un po’ più di fatica che sedersi davanti a uno schermo e condividere le proprie convinzioni usando notizie pescate in rete piegandole a quel che si vuole dire.

Preferiremmo di no.