Perché non c'è da sorprendersi se Confindustria si schiera dalla parte del Sì al referendum di ottobre

«Le riforme sono la strada obbligata per liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi, che hanno contribuito a soffocarlo nell’immobilismo». È un Sì ancora informale quello di Confindustria al referendum costituzionale (sarà ufficializzato il 23 giugno quando si terrà il Consiglio generale e, in quell’occasione, verranno decise e rese note «le conseguenti azioni»), ma non per questo meno convinto. Perché gli industriali d’Italia – questo sì è certo – le riforme del governo hanno intenzione di sostenerle, e possibilmente accelerarle, tutte.

È una, in particolare, la ragione di questo sostegno. E il neopresidente Vincenzo Boccia – l’uomo della continuità tanto apprezzato dall’ex presidente Emma Marcegaglia, adesso a capo di Eni – l’ha ricordata ai suoi colleghi, che al termine del suo discorso di insediamento, ieri, si sono spellati le mani per i commossi applausi: «Confindustria si batte fin dal 2010 per superare il bicameralismo perfetto e riformare il titolo V della Costituzione. Con soddisfazione, oggi, vediamo che questo traguardo è a portata di mano». Dopo il ritorno in viale dell’Astronomia, quindi, la linea Marchionne è a portata di mano in tutto il Paese.

Per Confindustria le riforme sono indispensabili. Perché «l’economia è ripartita ma la risalita è modesta e deludente»; perché lo scambio fra salari e produttività «è l’unica strada percorribile» e perché «il superamento del (tanto odiato, ndr) bicameralismo», è finalmente «a portata di mano». E la democrazia rappresentativa – quei «veti delle minoranze e dei particolarismi», per parafrasare Boccia – non sono che un intralcio. Lo ricorda il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky dalle colonne di Repubblica: la riforma del Senato sommata all’Italicum «realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie».

Non parla solo al governo Boccia, ma anche a Cgil Cisl e Uil: «Per risalire la china dobbiamo attrezzarci al nuovo paradigma economico». Serve un capitalismo moderno, insomma. E per farlo occorre superare quel vecchiume dei contratti nazionali del lavoro. Perché gli aumenti retributivi devono corrispondere ad aumenti di produttività. «Il contratto nazionale resta per definire le tutele fondamentali del lavoro e offrire una soluzione a chi non desidera affrontare il negoziato in azienda».
Boccia avverti i sindacati, invitandoli a «non giocare al ribasso: con i profitti al minimo storico, lo scambio salario-produttività è l’unico praticabile» e «crediamo che la contrattazione aziendale sia la sede dove realizzarlo».

Preso dall’ottimismo, infine, accenna alle altre indispensabili riforme. Come quella sul fisco: «Spostare il carico fiscale, alleggerendo quello sul lavoro e imprese e aumentando quello sulle cose». Ma le persone vanno nella categoria “lavoro” o in quella delle “cose”?