Per il 40ennale della prima manifestazione delle Madri di Plaza de Mayo di fronte alla Casa Rosada a Buenos Aires, pubblichiamo uno scritto di Vera Vigevani Jarach, cofondatrice delle "Madres". Sua figlia Franca è scomparsa a 18 anni, il 26 giugno 1976, ed è tuttora desaparecida.

Negli anni Settanta, nel tragico periodo dell’ultima dittatura, un’intera generazione di adolescenti dell’ambiente liceale di Buenos Aires, politicamente impegnati, si ritrova perseguitata. Ragazze e ragazzi dai 15 ai 20 anni, sono costretti ad abbandonare il Paese, divenuto teatro di sparizioni inquietanti. Attraverso le testimonianze, raccolte decenni più tardi da Diana Guelar, da Vera Vigevani e da Beatriz Ruiz, vengono salvate le vicende dolorose che precedettero le partenze, le storie di militanza, di presa di coscienza, di progetti e di utopie; le lotte, le certezze, i dubbi; le vicende di paura, di fughe e di clandestinità; fino alla drammatica decisione dell’esilio.
L’archivio di storie è stato riunito da Vigevani, Guelar e Ruiz nel libro dal titolo “I ragazzi dell’esilio” edito da 24Marzo onlus e Qudu Libri. Il testo, curato e tradotto da Susanna Nanni, include le corrispondenze che gli adolescenti esiliati hanno mantenuto con familiari e amici, attraverso vari testi, su un passato che non può passare.
In occasione del 40ennale della prima manifestazione delle Madri di Plaza de Mayo di fronte alla Casa Rosada in Buenos Aires, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la postfazione firmata da Vera Vigevani Jarach. Giornalista a Buenos Aires e redattrice fino al 1993 dell’agenzia italiana ANSA, Vera Jarach è stata cofondatrice di “Madres de Plaza de Mayo – Linea fundadora”. Sua figlia Franca è scomparsa a 18 anni, il 26 giugno 1976, ed è tuttora desaparecida.

Vera Vigevani Jarach

I ragazzi dell’esilio – Postfazione

di Vera Vigevani Jarach

Si potrebbe supporre che sia facile analizzare le ragioni che mi hanno spinto ad interessarmi alla vicenda dell’esilio degli adolescenti argentini all’epoca dell’ultima dittatura. Si potrebbe supporre, altresì, che unicamente una chiave di lettura potrebbe spiegare la mia motivazione ad accompagnare questi adolescenti dell’esilio nella loro personale riscrittura delle storie, frantumando così un lungo e doloroso silenzio nonché scoprendo le tracce lasciate, le torture e le ferite ancora non rimarginate. Si tratterebbe, insomma, di rendersi conto semplicemente di ciò che ha significato il ritrovarsi con Diana Guelar, la migliore amica di mia figlia Franca, appena dopo il suo ritorno in patria dall’esilio,
e di immaginare che tutto ciò che è accaduto successivamente non potesse essere che la logica conseguenza di questo incontro. Ciò che è vero, in ogni caso, fuori dall’immaginazione, è che tutte le vicende che si sono susseguite trovano il loro punto di partenza in quell’istante. Tuttavia, per comprendere a pieno le motivazioni del mio impegno, questa appena descritta apparirebbe comunque come una verità parziale, nella quale mancherebbero troppi elementi che invece considero essenziali: il mio incontro con Betty Ruiz, il cui carattere e la cui sensibilità mi hanno immediatamente fatto tornare alla mente quelli di Franca; la partecipazione ad una riunione di esiliati a Buenos Aires e l’organizzazione, con Diana, Betty e altri esiliati, di una commemorazione che avrebbe loro restituito la posizione che meritavano nel tragico contesto di quegli anni funesti. Così facendo, la mia unica motivazione si chiamerebbe Franca. Ma, come già detto, le cose non sono così semplici: non sono neppure facili da dipanare o almeno non sarebbero sufficienti a spiegare un processo lungo che va al di là del gruppo particolare di persone che vi si è costituito attorno. È proprio questo lungo processo che ha fatto sì che si creasse questo legame affettivo così solido e che si concretizzasse questo impegno comune per la Memoria.

Lascio dunque al lettore l’incarico di dare un ordine di priorità ai vari elementi di cui andrò a parlare. Certamente tra essi c’è Franca. Parecchio tempo prima del suo sequestro avvenuto il 25 giugno del 1976, appena qualche mese dopo il Colpo di Stato del 24 di marzo, mio marito Giorgio ed io, in vista di un pericolo sempre maggiore, avevamo fatto di tutto per convincerla a partire, a iscriversi ad un’università italiana per esempio. Se la situazione lo avesse reso necessario, saremmo stati pronti a raggiungerla e a tornare nel nostro paese di origine. Il secco rifiuto che Franca oppose non prevedeva possibilità di appello ed era quindi impossibile da discutere. Tutti gli esempi di cari amici già esiliati si sarebbero rivelati inutili per farle cambiare punto di vista. Dopo il sequestro di nostra figlia, i suoi amici più vicini finirono per lasciare in fretta e furia l’Argentina, evitando di fatto di imbattersi in un destino purtroppo simile. I mesi e gli anni che seguirono furono pieni di angoscia, di terrore e di disperati tentativi di ritrovarla e quindi di salvarla. Da un lato eravamo completamente annientati, dall’altro una debole speranza quasi “folle” guidava i nostri passi. Durante tutti questi anni fummo costretti a subire il silenzio della società e le nostre richieste di aiuto e i nostri appelli rimasero senza risposta. Ma ricevemmo anche l’appoggio, che ci fece riacquistare la forza, di coloro che soffrivano e vivevano per un dramma identico al nostro. Questo,
senza ombra di dubbio, è ciò che ci permise di affrontare almeno degnamente gli anni della dittatura e che ci permette oggi di avere una sorta di “famiglia allargata” di valore inestimabile. Incontrare di nuovo i compagni di Franca mi permise di riannodare quei legami affettivi e di aiutarli, quei ragazzi, a superare il trauma di essere stati vittima, seppur in modo diverso da mia figlia, della dittatura. Con loro abbiamo ripreso la storia là dove si era fermata, con uno scopo comune e cioè quello della vittoria della Verità e della Giustizia tramite la costruzione di una memoria collettiva condivisa.

Col passare del tempo abbiamo anche aggiunto il desiderio di recuperare gli ideali del nostro impegno passato. Certi sarebbero stati troncati dal genocidio, ma certamente non completamente cancellati per sempre così come la dittatura avrebbe voluto. Questa volontà di creare un mondo più giusto e quindi migliore sta portando a poco a poco, attraverso vie democratiche, i suoi frutti. Questa fiducia nell’avvenire, ne sono consapevole, proviene anche dal mio carattere prevalentemente ottimista; si tratta di un ottimismo moderato, ma sicuramente che si riflette e si costruisce attorno a diverse evidenze. Le altre motivazioni che rafforzano il mio impegno nella vicenda di questi adolescenti, hanno un rapporto diretto con il mio, di esilio. La mia famiglia emigrò in Argentina a causa delle leggi razziali che il regime fascista di Mussolini promulgò nell’ottobre del 1938. Fummo espulsi dalle scuole perché ebrei, soffrendo ogni giorno di più per la discriminazione nei nostri confronti e la nostra marginalizzazione. Per fortuna mia madre aveva presagito ciò che sarebbe avvenuto in Europa, quindi partimmo. A marzo dell’anno successivo arrivammo a Buenos Aires. E là, oltre al trauma e alla nostalgia provocati dall’esilio in una bambina di undici anni, compresi ciò che significava il dolore della perdita degli adulti, di mia sorella adolescente. Dolore causato dalla frattura nel rapporto, dalla paura per coloro che restavano, un gran numero dei quali fu eliminato durante la Shoah. In Italia ciò accadde soprattutto a partire dal 1943, quando i nazisti occuparono una gran parte del territorio nazionale e deportarono un numero inaudito di persone. Durante i lavori di scrittura di questo libro, si sono presentate numerose analogie tra la mia situazione passata e quella di questi adolescenti. Il valore inestimabile delle lettere, il sostegno che apportavano, scritte in una carta quasi trasparente e così leggera perché il loro costo fosse meno elevato. L’angoscia permanente che provavamo per coloro che erano restati, le famiglie, gli amici. La nostalgia. I destini tragici, le storie che purtroppo si ripetono: mio nonno materno deportato e assassinato a Auschwitz nelle camere a gas… e che non ha una tomba; Franca portata all’ESMA, torturata, assassinata e gettata da uno dei “voli della morte”… che neppure lei ha una tomba.

Le similitudini e i parallelismi vanno al di là dei contesti storici, delle distanze e del tempo. Essi hanno a che fare con le esperienze umane, con ciò che si è provato e che si è vissuto. Sono il frutto del terrorismo di Stato, del fanatismo, delle dittature che portarono a questo stato di totale immobilità creata dalla paura. E certe volte sono anche il prodotto, purtroppo occorre sottolinearlo, di collaborazioni e complicità dirette. Ecco quali sono dunque le diverse motivazioni delle storie che compongono questo volume, che hanno contraddistinto, per ciò che mi riguarda, lo sviluppo e la costruzione comune e che abbiamo perseguito con le altre autrici. Potrei descrivere queste motivazioni con la forza di altri dettagli e altri aneddoti; mi sembra però che il lettore abbia già compreso l’essenziale, percepito il valore aggiunto che la mia storia personale ha sommato alla mia tenacia. Ciò che importa è che comunque, oggi dopo tanti anni di perseveranza, siamo prossimi al “Giustizia è fatta!”; una Giustizia necessaria alla società, una Giustizia che assolutamente nessuno, tra le diverse vittime della dittatura, ha tentato di farsi da solo. È stato necessario affrontare e sormontare ostacoli impervi per abrogare leggi e decisioni già prese che assicuravano impunità totale ai colpevoli. Rendere giustizia ha un’importanza fondamentale per sostenere con forza l’ideale del “Nunca Mas”…Oggi osserviamo, seguiamo e viviamo con fiducia i processi che si stanno celebrando un po’ dappertutto nel nostro paese. Vengono portati avanti e sviluppati grazie alla forza della legalità, al coraggio dei testimoni e infine all’azione paziente e giusta di tutto l’apparato giudiziario.

Ecco infine un ricordo personale che ha a che fare con il concetto di Giustizia, ben lontano dello spirito di vendetta che, come sappiamo, non servirebbe a nulla. Lo racconto al presente perché è proprio così che continuo a viverlo, anche ora. Mio padre, avvocato, mi fa visitare, a nove anni, l’interno del palazzo del Tribunale di Milano (del quale la facciata fascista mi inquieta ancora oggi…) per mostrarmi in che cosa consiste “il lavoro di papà” che mi sembra così fantastico: il giudice, l’accusa, la difesa, la sentenza, ecc.. Un anno più tardi vengo espulsa dalla scuola perché sono ebrea… e si tratta di una “legge”. Allora la bambina riflette e si domanda se questa cosa così differente da come gliela aveva raccontata suo padre sia veramente la Giustizia. Questa domanda e questa inquietudine mi hanno sempre accompagnato e, ora che vedo che oggi, in Argentina, si rende finalmente giustizia per questi crimini passati che ci hanno così ferito, considero tutto ciò una sorta di riparazione morale.

È evidente che le ferite resteranno per sempre aperte; ma resterà anche “qualcosa” non solamente a noi, ma a tutto il mondo. Un traguardo etico raggiunto che d’ora in avanti sarà necessario rispettare e trasmettere alle nuove generazioni, come uno dei valori morali essenziali dell’umanità.

Buenos Aires, novembre 2011
Traduzione dal francese di Simone Cuva