Il pensiero cinese, diversamente dal Logos greco, non postula un al di là, guarda all’immanenza, al processo, ne segue le propensioni. Apparentemente asseconda gli eventi. E intanto opera una trasformazione silenziosa.

Riesce a farci vedere l’invisibile, il latente del pensiero occidentale mettendolo a confronto con quello orientale. Con libri, come Essere o vivere (Feltrinelli) François Jullien ci mostra lo scarto, la distanza, la radicale differenza che c’è fra la visione cinese (taoista e confuciana) e quella occidentale fondata sul Logos greco e sul cristianesimo. A cominciare dall’ateismo che connota la cultura cinese. Dopo aver mostrato quanto sia graniticamente astratta l’idea di bello ideale di matrice greca e perdente una cultura come quella Occidentale basata sull’idea di conquista e di possesso, mettendola a confronto con la silenziosa e duttile onda dell’invasione cinese in Europa, il filosofo e sinologo francese ora torna a esplorare la dimensione dell’intimità e della relazione uomo donna con un nuovo saggio Accanto a lei (Près d’elle) edito da Mimesis di cui il professore ha parlato a Tempo di libri, a Milano. Un passo del Principe splendente (Genji monogatari), il romanzo scritto da Murasaki Shikibu, dama di corte nel XI secolo ci offre uno spunto per addentrarci in questo tema.
«Attraverso una breccia della recinzione si percepiscono i riflessi dello stagno. Il viaggiatore si siede in mezzo ai crisantemi dai colori ravvivati dalla brina ed estrae un flauto dal dorso della manica. Da qualche parte, in casa, una cetra inizia ad accompagnare il flauto, rivelando il gioco delicato di una mano femminile che proviene da dietro la cortina, sotto lo scintillare della luna», scrive Jullien in Accanto a lei.
Il Genji monogatari ci parla di una intima risonanza fra uomo e donna, da un altrove. Cosa vi legge?
Il Giappone, con le sue architetture, le penombre negli interni delle case, ha raffinato quest’arte di una presenza discreta, filtrata, per evitare che la presenza si opacizzi, si banalizzi, si isterilisca. Bambù, tendine, paraventi, di seta o di carta, porte scorrevoli, tramezzi mobili o cortine abbassate o le maniche levate davanti alla bocca che lasciano appena intravvedere il volto, filtrano la presenza, la disciolgono in un’atmosfera, invece di individuarla in modo netto. La cultura letteraria giapponese ha saputo descrivere molto bene la possibilità di un accesso obliquo che preserva dalla brutalità, dall’aggressività di un faccia a faccia troppo smaccato. L’esteriorità che la Cina e il Giappone offrono all’Europa, al suo pensiero, permette di costituire un vis-à-vis: l’altrove non è l’utopia che rassicura, che si vagheggia, bensì un’eterotopia – un “luogo altro” – che al tempo stesso inquieta e permette di sondare il proprio intimo. La presenza che si sente giungere attraverso un fruscio di seta, nelle parole che ci si scambia anche nella lontananza, viene riattivata, ravvivata. Alla forza, spesso violenta, della presenza piena, totalmente dispiegata, preferisco una presenza furtiva, colta di nascosto, o di sfuggita.
Nel suo nuovo libro lei parla di «tra» (entre), «scarto» (écart), «intimo» (intime). Nel Tao lo yin e lo yang sono complementari, la relazione con il femminile si definisce in relazione al maschile e viceversa. Vi si può leggere una visione diversa da quella occidentale dove la supremazia maschile si è affermata negando o addirittura annullando la donna?
In questo piccolo testo ho cercato di portare avanti l’indagine sull’alterità personale, quella legata all’intimo del soggetto, e che fa da pendant alle mie ricerche sull’alterità culturale. In questo senso si può attivare la saggezza cinese che lega in un movimento costante lo yin e lo yang, senza supremazia dell’uno sull’altro, o dell’uno sull’altra. Nella misura in cui penso all’Altra, mi distacco da me, tuttavia resto sempre in me stesso; il pensiero dell’Altra, il pensiero rivolto all’Altra, evolve in accordo con me – e viceversa, ciò vale anche al contrario, in modo complementare. Quando invece ci guardiamo, quando i suoi occhi iniziano a posarsi su di me e i miei su di lei, accade qualcosa di radicalmente nuovo, ogni volta inedito, che richiede un’inventiva – lì nulla è già giocato, quel che sembrava già scritto o previsto deve allora essere improvvisato. Accade un vacillamento tale per cui io non appartengo più a me stesso; quel vacillamento avviene in modo non cosciente, nell’«intimo». Finché questa tensione è attiva, la presenza è effettiva e non si isterilisce. Non appena la tensione non scorre più tra l’uno e l’altra e ciascuno si isola, si suppone autonomo nella sua individualità, allora la presenza affonda e diviene «opaca». La presenza si attiva perché vi è un «tra» che si è aperto tra di noi: «c’è un tra fra di noi», direi per celebrare un legame intimo – che si tratti di «amore» o di «amicizia».
La razionalità occidentale è monocratica. Ulisse si vanta astuzia, “metis”. Ma questo approccio competitivo si dimostra alla fine miope, inefficace?
Forse Ulisse è proprio il primo filosofo, l’Ulisse dell’Odissea che andando alla deriva erra da un luogo all’altro, prima di rientrare in patria. Se ci si sa mantenere vitali, strategicamente, si riesce a coltivare l’efficacia senza consumarsi, come insegna il macellaio Ding descritto nel libro taoista Zhuangzi, il quale taglia le carni da anni senza mai dover affilare il coltello – perché non rompe le ossa e non “forza” alcunché. La logica della competizione, anche se appare eroica e ostenta successi, alla lunga invece si consuma, e consuma cui la segue.
Come legge oggi “la trasformazione silenziosa” dell’Europa compiuta da immigrati cinesi sette anni dopo il suo omonimo libro?
Ogni volta che scendo per strada, a Parigi, penso che all’inizio nessuno si accorgeva dell’arrivo dei migranti cinesi; poi, d’un tratto, ci si è resi conto del fatto che le strade era piene di insegne cinesi. È stata una vera e propria “trasformazione silenziosa”. Ora mi diverto a leggere i nomi dei ristoranti cinesi del mio quartiere: alla lettera, dicono «In piena fioritura» (Xincheng); oppure «Espansione-sviluppo-profitto» (Xinfali); o riprendono le prime parole dell’Yijing, il Classico dei mutamenti: «Capacità iniziatrice – sviluppo» (Qianheng). Ma poi le stesse insegne, in francese, dicono: «Delizie asiatiche», «Delizie Express», o «Chez Tonny»… Non si fa nessuno sforzo per tradurre; le rubriche cinese ed europea restano parallele, senza comunicare. Sovrapposte l’una all’altra, le due si ignorano. Facendo finta di assumere la lingua dell’altro, si finisce per ripiegare la coerenza su se stessa e la si richiude. Viene fissata in un fondo ineffabile, invece di dischiuderla. Il pericolo è che si faccia così a livello globale: che non si traduca mai davvero. Si sovrappongono codici diversi, occultandoli. Ciò significa che sotto uno strato occidentalizzato si ricostituisce uno strato identitario, autoctono, che si indurisce molto più di quanto si lasci penetrare dall’altro e si isola. Al riparo di quelle affissioni esteriori che fanno credere a un comune nato dall’integrazione, quel “dentro” che non lascia accedere a una comprensione effettiva riemerge d’un colpo all’insegna dei cosiddetti «valori asiatici»; e questi, come oggi lo si può constatare in Cina, pretendono di essere (o finiscono per credere di essere) assolutamente specifici, astorici, qualcosa a cui gli stranieri non possono accedere.
Diversamente dalla nostra, la cultura cinese non è basata su una trascendenza?
Il pensiero cinese – definisco così il pensiero che si dà attraverso la lingua cinese, pur essendo consapevolezza della pluralità che la Cina ha conosciuto nella sua storia – non ha sviluppato un interesse verso ciò che noi chiamiamo metafisica; non ha avuto bisogno né di porre Dio come «causa» del mondo, né di porre la Libertà come «causa» della volontà del soggetto. Entrare in contatto con il pensiero cinese significa apprendere a pensare in termini di “propensione” e non più di causalità. Significa cioè rovesciare la chiarezza data da una «scomposizione» in elementi di base, abbandonare la chiarezza dell’essere e della sua costruzione, per sposare invece una logica della immanenza e della correlazione, una logica del processo. Bisogna comprendere che il “processuale” va distinto radicalmente da ciò che abbiamo in genere concepito sotto la figura del divenire. La propensione allude a un dispiegamento che non è messo a rischio da alcuna perdita né è segnato da alcuna vocazione finalistica, teleologica: è un dispiegarsi che è orientato dal modo in cui la situazione pende, che ne segue l’inclinazione, e in tal modo produce il rinnovamento continuo di quel regime di immanenza dei processi naturali, senza postulare un al di là metafisico.
Pensando al suo Vivere di paesaggio in uscita a maggio per Mimesis, perché il pensiero del paesaggio, a differenza di quello del giardino, è stato ignorato nella Bibbia, in India così come nell’Islam?
Spiegare perché nella Bibbia, in India o nella tradizione islamica è stato ignorato il pensiero del paesaggio richiederebbe la scrittura di altrettanti libri, e le competenze di un biblista, di un indologo e di un islamologo. Ciò che si può dire, a partire dall’esame della cultura cinese e di quella rinascimentale europea, è che in quelle culture non appare un’attenzione analoga a tale soggetto. In Europa la coscienza del paesaggio è apparsa nella pittura del Rinascimento, e dopo alterne vicende riappare oggi, nella preoccupazione dell’ambiente e dell’ecologia. In Cina il pensiero del paesaggio è nato più di mille anni prima e si è sviluppato senza interruzione nella cultura dei letterati. La lingua cinese, per dire ciò che noi europei intendiamo con “paesaggio”, dice «montagna-acqua», shanshui 山水; o «montagna-fiume», shanchuan 山川. Il termine è antico ma vale anche oggi, nel cinese moderno: i cinesi non si sono interrogati più di noi sul termine «paesaggio». Ma lì il paesaggio non è pensato come una porzione di Paese offerta alla vista di un osservatore, bensì come una correlazione tra opposti, le «montagne» e le «acque», il verticale e l’orizzontale, che al tempo stesso si oppongono e si rispondono. Invece di «paesaggio», come termine unitario, la Cina dice un gioco di interazioni tra fattori contrari che si correlano. All’opposto del monopolio della vista, la cultura cinese esprime la polarità secondo la quale il mondo si dispiega.
La pittura di paesaggio in Cina ha una tradizione millenaria, molto variata ed evocativa. Possiamo leggervi una diversa concezione dello spazio rispetto a quella Occidentale che lo ingabbia nella prospettiva rinascimentale?
In Cina la pittura dei letterati, ad inchiostro, è essenzialmente un’esperienza esplorativa, non soltanto visiva, che coinvolge la totalità dei sensi. È un’esperienza di ambientamento, nel senso che il pittore si fa tutt’uno con il paesaggio, con il mondo che lo circonda e vi si trova a suo agio; si riconosce in esso, attraverso di esso. Il paesaggio non resta esteriore, estraneo al pittore, ma l’uno e l’altro si compenetrano, si completano. La logica sottesa è una logica respiratoria, non geometrizzante. La prospettiva rinascimentale ha permesso di “inquadrare” il mondo, letteralmente, organizzando la logica di conoscenza che ipotizza un “raggio” ottico, da soggetto ad oggetto, secondo cui il secondo viene (com)preso dal primo; quella logica ha poi portato alla rivoluzione scientifica nell’Europa del Seicento. Diversamente, la logica sottesa alla pittura cinese è una logica di connivenza, secondo cui si tratta di entrare in comunione con l’energia vitale, con il soffio rigenerante del paesaggio: questo non è quindi un “oggetto” della pittura, non è tanto qualcosa da rappresentare – di riportare alla presenza, o da obiettivare – ma una modalità relazionale con cui il pittore si sintonizza attraverso il suo stesso gesto.
(Traduzione di Marcello Ghilard)

 Tra Oriente e Occidente

dal suo primo libro tradotto in italiano,  Processo o creazione. Introduzione al pensiero dei letterati cinesi, (Pratiche, 1991), il sinologo e filosofo François Jullien ha sempre offerto approfondimenti sulla Cina e l’Oriente che invitano l’Occidente ad aprire gli occhi sulla violenza del monoteismo, ma anche della razionalità strumentale, incapace di entrare in relazione profonda con l’altro. La dea ragione alla fine si rivela del tutto miope, incapace di leggere il latente nelle relazioni umane e ciò che muove i processi sociali. Questo filo di ricerca innerva suoi libri come Pensare con la Cina, a cura di Marcello Ghilardi, Mimesis, (2007), Logos e Tao (Laterza, 2008), Le trasformazioni silenziose (Raffaello Cortina, 2010). E più di recente “Essere e vivere” (Feltrinelli) e Accanto a lei (Mimesis).