Sfatiamo il mito che la fantascienza sia evasione dalla realtà. In effetti ne è interpretazione, trasformazione, arricchimento», dice Francesco Troccoli, autore di una trilogia in cui la fiction è un atto d’accusa contro il pensiero freddo e razionale del capitalismo

In Italia la fantascienza ha avuto grandi scrittori, per esempio Primo Levi, ma la sua narrativa in questo ambito è stata considerata minore. Come leggere oggi questa miopia della critica? «Levi, chimico, definì la separazione fra cultura scientifica e umanistica “schisi innaturale”. Agli albori della fantascienza moderna si parlava di “romanzo scientifico” e l’espressione science fiction ha mantenuto la connotazione», racconta Francesco Troccoli, appassionato lettore di Levi e a sua volta autore di romanzi di fantascienza, come la saga dell’Universo insonne, trilogia composta da Ferro Sette e Falsi dèi usciti per Armando Curcio e Mondi senza tempo pubblicato con Delos.
«Da un lato, gli argomenti della scienza interessano meno di quelli della storia, dell’attualità, della cronaca sociale; dall’altro, la fantascienza si rivolge a lettori in grado di “accettarla”: la sospensione dell’incredulità è un esercizio impegnativo – sottolinea Troccoli -. Forse fu per questo che Storie naturali di Levi fu pubblicato sotto pseudonimo. Come poteva l’autore di Se questo è un uomo scherzare con le leggi di natura? Alla base del progresso scientifico ci sono sempre state intuizioni geniali, frutto della fantasia dell’osservatore più che della razionalità catalogatrice. A volte queste intuizioni diventano scoperte, a volte racconti. Sfatiamo il mito che la fantascienza sia evasione dalla realtà: in effetti ne è interpretazione, trasformazione e arricchimento. Non a caso Levi la riteneva tutt’altro che scissa dalla sua terribile storia. Rispetto allo scienziato-scrittore di FS più fortuna ha avuto il letterato-scrittore di FS: la fantascienza di Italo Calvino è ben più nota. Eppure, le storie di Levi non sono meno umaniste di quelle di Calvino.
Guido Gozzano è stato un grande scrittore di fantascienza ma pochi lo sanno, perché è considerato quasi soltanto uno scrittore crepuscolare?
A cavallo fra ’800 e ’900 l’esplorazione del fantastico era connaturata all’esercizio della narrazione. Capuana, Verga, Svevo, Tozzi, Gozzano e tanti altri, non hanno disdegnato l’appartenenza a un filone che ha poco da invidiare a Kafka, Poe, Hoffmann. È una “scienza” diversa da quella del positivismo di matrice illuministica, una maniera originale di esplorare l’inconscio, con le difficoltà, ma anche le straordinarie intuizioni, di una simile ricerca. Fra l’ Unità d’Italia e Prima guerra mondiale questi temi erano trasversali e “normali” per chi scriveva. Forse oggi questa tensione, quest’attitudine alla ricerca interiore, si è un po’ persa. Raccontare di fantasmi, maledizioni o arzigogolati marchingegni era normale, era un modo per tentare di capire l’umano, perché se una storia non è “strana” (weird), irrazionale, se non apre prospettive diverse, a volte inquietanti, che storia è? Questa è la potenza di quel che oggi ci ostiniamo a chiamare “genere” con un accanimento che è soltanto editoriale. Applicando i criteri di genere, dovremmo includere la Divina Commedia nell’horror, l’Odissea nel fantasy e l’Orlando Furioso nella fantascienza. E che altro sono Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente se non romanzi fantastici?
La tradizione anglosassone ha conosciuto numerosi capolavori. Autori come Huxley oggi vengono riscoperti anche in Italia, per via indiretta, attraverso i libri illustrati degli anni trenta o le canzoni di David Bowie. Che ne pensi?
La fantascienza deve rivolgersi a tutti. Esplora la realtà dell’essere umano in un modo che non ha eguali. Quella moderna inizia con J. Verne e H. G. Wells, che ha inaugurato quel filone sociologico, che fa della fantascienza uno strumento elettivo di analisi dei drammi del ’900, con la letteratura della distopia, da Huxley a Orwell. Oggi questa valenza sociologica, umanistica, si è affievolita e, per ritrovarla, bisogna guardare al passato. All’indomani dell’elezione di Trump, chi non ha pensato a 1984? Nella fase finale della “Golden age”, la fantascienza guardava alla conquista dello spazio e, nonostante il terrore nucleare, nutriva grande fiducia nell’essere mano. Un racconto di Clarke diventava un caposaldo del cinema come 2001: odissea nello spazio, nel quale, pur nella visione razionalista dell’origine dell’umanità, c’è l’apertura a una ricerca interiore. Nell’esplorazione del Cosmo sembravano aleggiare gli echi della filosofia di Giordano Bruno. Basti pensare a Isaac Asimov. Con il ’68 sono arrivate le donne, Ursula K. Le Guin fra tutte, e la valenza umanista della narrazione di genere ha trovato nuova linfa. Sono gli anni in cui il genere ha iniziato a definirsi in quanto tale, ma forse anche a chiudersi, diventando una nicchia inizialmente ampia, oggi drammaticamente ridotta. Nelle arti visive, nel cinema, la fantascienza, spesso sotto mentite spoglie, riesce ancora a parlare a tutti. Ma bisogna essere David Bowie o i Muse; Stanley Kubrick o Cristopher Nolan.
L’incontro fra scienza e romanzo conosce oggi un filone che va da Solar di McEwan a Bruno Arpaia in Italia, una fantascienza piuttosto catastrofista. Qual è la radice? Dietro a una sincera preoccupazione per l’ambiente si nasconde una visione apocalittica?
Fino alla caduta del Muro di Berlino, il catastrofismo ruotava intorno all’olocausto nucleare. Poi siamo passati all’apocalisse ecologica. Non si può negare che ambientazioni simili abbiano effetto ammonitore, e il romanzo di Arpaia fa riflettere sui flussi migratori di oggi. Raccontare drammi è facile, difficile è inventare storie che non sfocino nel fallimento, individuale o collettivo. E che il fallimento sistematico sia vocazione di una cultura plurimillenaria di matrice religiosa è indubbio. Ma il positivismo non è da meno: secondo la Psicologia delle folle, quando cadono la legge e la morale (per una guerra nucleare o uno tsunami climatico) la collettività regredirebbe a uno stato bestiale, lasciando emergere il fatidico homo homini lupus. Ne La strada di Cormac McCarthy gli esseri umani, distrutta la società organizzata, “tornano” alla loro natura di feroci bestie antropofaghe. È questa visione freudiana che nega l’umanità, la sanità della nascita, e offre la sponda all’alienazione religiosa, che secondo me una vera fantascienza “umanista” deve rifiutare. La nostra visione dell’essere umano influenza il nostro futuro di esseri umani. Il genere fantascientifico ha responsabilità culturali enormi.
Come è l’idea di misurarsi con una saga?
Era il 2009. Nella multinazionale per cui avevo lavorato fino ad allora ero un ingranaggio di un sistema spersonalizzante, nel quale l’identità di una persona è definita da numeri: fatturato, quota di mercato, salario, ore di produttività. Poiché il nostro pianeta è un sistema chiuso e il nostro modello economico ormai unico non può rinunciare all’espansione, da appassionato di fantascienza mi chiesi dove, in futuro, si sarebbero potute reperire le risorse per un’ulteriore “crescita”. La risposta era ovvia: all’interno del sistema stesso. Ogni individuo ha una riserva ancora integra, che ammonta in media a otto ore per notte. Applicando gli opportuni fattori di conversione, è una ricchezza consistente. Bisogna solo farne una cosa “utile” che produca un “utile”.
Nel mondo di Ferro sette, le persone lavorano senza sosta al punto che hanno dimenticato cosa sia il sonno, e dunque sognare. Ti rubo una domanda che tu stesso provocatoriamente poni: ti sembra fantascienza?
Proprio su Left, nel 2015 lessi di 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, di Jonathan Crary. Vi si legge: “Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo, l’ideale perverso di una vita senza pause (…) in una sorta di veglia globale”. Nei miei romanzi il sonno inizia a essere ridotto per ragioni economiche e militari, poi viene combattuto alla stregua di una malattia e infine sparisce dalla nostra stessa evoluzione. La prima fase si sta verificando già oggi, con esperimenti militari di deprivazione del sonno. Nel mio Universo Insonne la perdita di questa funzione biologica allude allo smarrimento del lato irrazionale, inconscio, creativo, degli esseri umani. Nel mio mondo immaginario arte, letteratura, sogno, fantasia, sono parole estinte oppure orfane del loro significato d’origine; i rapporti umani sono gerarchici e di sfruttamento. A tutto questo un uomo, che conosce la storia umana, si ribella. In molti, spontaneamente, lo seguono. Quest’uomo parla dell’importanza delle cose “inutili”, delle azioni e dei pensieri che non obbediscano alla logica della razionalità e della soddisfazione dei bisogni materiali. Quest’uomo ha scoperto la verità della natura umana. Anche questo a me sembra tutt’altro che fantascienza…
La Repubblica dei sogni a suo modo è un libro “sovversivo…
La Repubblica dei sogni è il coronamento ideale di questa ribellione. Un’utopia fantascientifica a misura d’uomo. E di donna. Un’enclave di ribelli ormai vittoriosi, che hanno fatto propria l’identità di quell’uomo, personalizzandola, trasformandola nella propria, uguale ma diversa. Il contrario de La Maschera della morte rossa di Poe. Una storia di realizzazione, una storia che non sfocia nel fallimento.

Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).