Bagliori visionari, tagli prospettici arditissimi, scorci “maravigliosi”. Jacopo Robusti (detto il Tintoretto) è il pittore della luce, del colore che diventa forma. Due mostre a Venezia ne raccontano la ricerca e l’inesausta voglia di sperimentare. Dal 25 al 27 febbraio il film su Tintoretto esce al cinema distribuito da Nexo Digital

La storia ci racconta dell’audacia, dell’esuberanza dell’ombroso Jacopo Robusti detto Tintoretto (Venezia, 1519-1594), nomignolo che gli derivava dal lavoro del padre, tintore di sete e dalla sua modesta statura fisica. Veloce e pungente come un «granello di pevere», sapeva imporsi sbaragliando la concorrenza dei grandi nomi dell’epoca a Venezia, da Tiziano a Veronese come accadde per la Scuola Grande di San Rocco, che alla fine divenne quasi una sua opera monografica. Diventare il pittore ufficiale della Serenissima era la sua massima aspirazione. Quando venne bandito il concorso per il soffitto della sala dell’Albergo in San Rocco, come di regola, molti colleghi si presentarono con schizzi, lui arrivò con l’opera bella e fatta, disposto a regalarla. Difficile rifiutare…Generosità interessata, la sua, ma bisogna dire anche che Tintoretto sapeva bene che il vero valore dell’arte è immateriale.

Ben integrato nella società del tempo, fra spettacoli e mondanità letteraria aristocratica, tuttavia, fu tutt’altro che un artista di corte. I pochi documenti superstiti che lo riguardano così come le opere rifiutate dai committenti ci dicono di un artista che non si faceva comandare, che non ripeteva mai pedissequamente l’iconografia tradizionale imposta, ma ogni volta la ricreava, interrogandosi su quale fosse il focus narrativo ed emotivo della scena, sacra o profana che fosse. Ne è un esempio l’opera che segna il suo passaggio alla maturità, quello spettacolare Miracolo dello schiavo (1548) che nella mostra Il giovane Tintoretto nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia suggella e conclude il percorso espositivo invitando il visitatore a proseguire in Palazzo Ducale con Tintoretto 1519-1594 (entrambe aperte fino al 6 gennaio) un’ampia mostra sul ricchissimo periodo della maturità accompagnata da un denso catalogo Marsilio.

Il miracolo di San Marco o dello schiavo indubbiamente rappresenta un salto di paradigma nel percorso di Tintoretto: è una summa di stili attraversata da molte correnti. Ci sono dentro Michelangelo, Raffaello, Parmigianino e molto altro. Ma allo stesso tempo è una creazione di immagine, un’opera del tutto nuova di un autore che ha già sviluppato un proprio originale e personalissimo linguaggio. In questa prima commissione pubblica destinata alla prestigiosa Scuola Grande di San Marco, Tintoretto usa colori acidi, la torsione e la fisicità di figure michelangiolesche, teatralità, scorci arditi: al centro il precipitare di San Marco in scena, visto da sotto in su, come un fulmine a ciel sereno che, d’un tratto, fa cadere di mano gli strumenti della tortura agli aguzzini. Fra grande concitazione il quadro racconta di un prodigioso miracolo popolare. L’immediatezza, il movimento che percorre la folla, ci dice della familiarità di Tintoretto con la vita umile e di piazza, nelle calli più povere, nei mercati, nei porti di pescatori. La pittura deve muovere, commuovere, turbare, parlare a tutti, lui l’aveva ben chiaro. E lo realizza mescolando alto e basso, stile elevato e umile, nudo realismo e raffinati effetti luministici, che orchestrava creando dei piccoli teatri con figurine, studiandone accuratamente luci e ombre.

Potente dinamismo, estrema mobilità, spericolatezza dell’immagine gli servono per arrivare al massimo della tensione emotiva. In questo è un maestro assoluto. Il pathos, le sciabolate di luce, la drammaticità, quel suo modo semplice e diretto, si coniuga con il “sublime”. Questo fece di lui l’artista studiato da Rembrandt, da Delacroix e soprattutto prediletto dai romantici innamorati del “dionisiaco” Tintoretto, con le sue forme via via sempre più evanescenti, larvali, non finite, dal Trafugamento del corpo di San Marco (1566) alla finale Maria Egiziaca in meditazione, quasi appena accennata, in controluce. Sul lato opposto, l’apollineo Veronese che Tiziano indicò come suo erede ideale. Anche per questo Tintoretto è stato considerato antesignano del moderno, insieme a El Greco con le sue figure allungate e ardenti come fiamme, con le sue pale visionarie. Ben prima del pittore cretese (che divenne famoso in Spagna dopo essere stato a Venezia), Tintoretto si rifaceva a radici bizantineggianti, recuperando l’uso della polvere dorata (vedi la Presentazione di Maria al tempio, 1552-1556) che a Venezia non era più di moda nel XVI secolo. Lo racconta bene la mostra nelle Gallerie dell’Accademia offrendo, anche nel catalogo Electa, spunti nuovi per comprendere la formazione di Tintoretto di cui poco sappiamo, se non che fu capace di apprendere da tante e diverse personalità, da Tiziano a Pordenone, da Sansovino a Serlio e Schiavone. Per quanto fosse un pittore piuttosto stanziale (non sono documentati suoi viaggi a Firenze o a Roma) era aggiornato sulle novità più importanti, anche quelle che venivano dalla maniera tosco-emiliana, che era guardata con diffidenza in Laguna. A Venezia circolavano molte opere provenienti da fuori, soprattutto stampe e disegni. Il traffico si intensificò con l’arrivo dell’Aretino che aveva cercato nella Serenissima un riparo dopo il sacco di Roma del 1527. E poi con quello del Sansovino, di Salviati e di Vasari intorno al 1540.

Diversamente da grandi coloristi veneti come Tiziano e Bellini, Tintoretto non disdegnava affatto il disegno. La mostra ci offre esempi altissimi della sua arte grafica, capace di dare movimento, spessore emotivo e introspezione psicologica perfino a copie di busti della statuaria antica. Di sicuro studiò a fondo gli schizzi di Michelangelo per le cappelle medicee: il riverbero si nota nell’ancora acerba Sacra Conversazione Molin esposta nelle Gallerie dell’Accademia. Studiò i bassorilievi del Sansovino come si evince dall’assembramento di folla in piano nel Miracolo dello schiavo. Rivelano una profonda conoscenza di Michelangelo le quinte architettoniche in uno spazio ormai sregolato e la torsione delle figure nella giovanile Disputa di Gesù (1545-46), con un Gesù, ragazzino dialettico e infervorato in secondo piano. Mentre la figura costruita, quasi solo di giallo, che giganteggia in primo piano evoca il coraggio alchemico di Parmigianino, la cui opera, forse, Tintoretto conobbe a Mantova, dove viveva suo fratello, musicista di corte. In Palazzo Té ebbe modo di vedere anche la sala di Psiche opera del manierista Giulio Romano, allievo di Raffaello. Tutto questo ci racconta Tintoretto giovane, la mostra veneziana curata da Paola Marini, Roberta Battaglia e Vittoria Romani che ha il merito di proporre una selezione delle prime opere da lui realizzate, sfrondata dalle molte e incerte attribuzioni. Oltre al colorismo di tradizione veneta, oltre al disegno di marca tosco-emiliana, Tintoretto seppe guardare anche alla pittura fiamminga, da cui mutuò il tratto febbrile e nervoso. Anche quando con i figli pittori (Domenico, Marco e l’amatissima Marietta, che divenne pittrice molto nota all’epoca) mise in piedi una bottega assai quotata, la sua porta era sempre aperta ai giovani artisti che arrivavano dal Nord portando novità che riguardavano la tecnica, ma soprattutto lo sguardo e la visione. In epoca riformata quando si allungavano minacciose ombre controriformiste perfino nella laica e libera Venezia, Tintoretto non si lasciò irretire: dipingendo un soggetto biblico come Susanna e i vecchioni, ritrae Susanna come Venere, come una dea morbida e luminosa, attorniata di specchi, gioielli e suppellettili. Nel magnifico quadro proveniente da Vienna appare nuda con un filo di perle al collo come le cortigiane veneziane, raffinate dame di compagnia che si dilettavano anche di musica e poesia. Susanna, nel quadro ora esposto in Palazzo Ducale è in primo piano, in pena luce, con delicata ombra sull’incarnato che, come è stato notato, appare come la carezza dello sguardo del pittore.

Tintoretto fu dunque pittore storico, sacro, ma anche di mitologia e fine ritrattista. In Palazzo Ducale, due autoritratti, uno giovanile del 1588 e uno finale risalente agli ultimi anni, non a caso aprono e chiudono il percorso curato da Robert Echols e Frederick Ilchman che raccoglie più di 50 opere e una ventina di disegni autografi, fra i quali numerosi prestiti da musei europei e d’Oltreoceano. Se nel primo Tintoretto appare come un giovane pittore romantico, nel secondo si rappresenta incanutito e senza gli strumenti di lavoro. A latere, si legge la scritta «ipsius», indicando se stesso, senza orpelli. In questo autoritratto finale Tintoretto ci guarda negli occhi, quasi a proporci i suoi dubbi, le sue incertezze. Senza neanche il paravento di quella dimensione stoica che aveva proposto in tanti altri ritratti di vecchi qui ben rappresentati.

Tintoretto al cinema dal 25 al 27 febbraio

Tintoretto. Un ribelle a Venezia

L’articolo di Simona Maggiorelli è tratto da Left del 4 gennaio 2019


SOMMARIO ACQUISTA