Palazzi storici, collezioni d’arte, riserve idriche, interi pezzi di patrimonio pubblico sono oggetto di svendite legalizzate dalla debolezza del demanio. Dagli anni 90 una vera emorragia. «Per salvare i beni comuni serve una legge nazionale» dice il giurista Alberto Lucarelli

Tutelare l’ambiente, salvare il territorio dalla speculazione, mettere al centro l’interesse pubblico nella gestione dell’acqua e di altre risorse primarie, valorizzare la funzione civile delle proprietà collettive, materiali e immateriali, a cominciare dal patrimonio storico artistico. Ridare forza al concetto di communitas, alla democrazia partecipativa, attraverso una rilettura della categoria dei beni pubblici è l’obiettivo che si è dato il gruppo di lavoro nato dalla commissione Rodotà di cui ha fatto parte il giurista Alberto Lucarelli che, insieme a Ugo Mattei ed altri, si è fatto promotore di una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare in difesa dei beni comuni. Ordinario di Diritto costituzionale alla Federico II di Napoli e co-direttore della rivista Rassegna di diritto pubblico europeo, Lucarelli è stato al fianco di Stefano Rodotà, in particolare nel 2007 e 2008, lavorando per una riforma del regime civilistico della proprietà pubblica, un progetto che faceva tesoro della riflessione sui beni comuni avviata nei Social forum, a Seattle, a Genova, a Firenze.

All’epoca del referendum sull’acqua, di cui Lucarelli con altri redasse i quesiti, furono raccolte migliaia e migliaia di firme. Ora l’obiettivo del comitato Rodotà è ricreare quell’esperienza, raccogliendo «un milione di firme», dice Mattei, per dare un segnale forte di reazione e mobilitazione della società civile contro le politiche neoliberiste di privatizzazione dei beni pubblici e di sfruttamento intensivo a tutto vantaggio del profitto privato.

«C’è una crescente sensibilità verso questi temi, che semplificando molto chiamiamo beni comuni», rimarca Lucarelli. «Lo abbiamo visto anche dai risultati del voto a livello europeo: c’è stata un’apertura di interesse verso la difesa dei beni comuni, in particolare dell’ambiente. L’affermazione dei partiti ecologisti alle elezioni del 26 maggio scorso lo denota. Penso al 22% dei Verdi in Germania, al 12% in Francia. Alcuni sono partiti orientati a mettere insieme istanze ecologiste e sociali» afferma il giurista autore di Beni comuni (2011) e de La democrazia dei beni comuni (2013), ora al lavoro per un nuovo libro su populismo e costituzionalismo.

Diverso è invece il caso Italia dove l’importanza di questi temi è stata colta da molteplici amministrazioni locali, ma è del tutto assente dall’agenda politica di governo. «I beni comuni e sociali sono ormai categorie giuridiche concrete, diffuse nelle esperienze amministrative, ma non c’è una legge in Italia che le recepisca», avverte Lucarelli. «Da assessore per i primi 19 mesi a Napoli mi sono occupato di beni comuni direttamente. Il concetto è iscritto nell’articolo 3 dello statuto del Comune di Napoli. Su questi temi le esperienze giuridiche civili locali si sono realizzate con un pragmatismo visionario e lungimirante. Ma se non c’è una legge nazionale, la categoria dei beni comuni può essere facilmente spazzata via».

Ma quale legge sarebbe auspicabile? Rispetto alla proposta di legge di iniziativa popolare del comitato Rodotà il costituzionalista Paolo Maddalena ha espresso delle riserve, per esempio, perché il concetto di proprietà demaniale, sarebbe scomparso. Il testo non lo elimina, risponde Lucarelli, ma lo destruttura, riorganizza la materia, «per renderla più aderente alla realtà attuale e soprattutto per orientarla a finalità collettive, piuttosto che agli interessi del proprietario». E commentando la spaccatura che si è aperta nel gruppo di lavoro iniziale di cui faceva parte anche Maddalena ammette con rammarico: «Lungo il percorso alcuni compagni di strada si sono persi. Ma bisogna avere il coraggio di ricompattarsi, non solo per la crescente sensibilità che emerge in vari ambiti e perché in tanti stanno capendo l’importanza del tema, ma anche perché le svendite continuano e vanno contrastate».

Accade in molte parti d’Italia, ed anche a Napoli, dove  quando era assessore Lucarelli furono avviate sperimentazioni coraggiose come la ripubblicizzazione dell’acquedotto. Di recente, però, nel capoluogo partenopeo 431 immobili sono stati inseriti in un piano di dismissioni. Fra questi figura anche l’ex carcere Filangieri e altri spazi già individuati come “beni comuni” e “usi civici urbani”. «Alcuni di essi erano sedi di interessanti esperienze dal basso, interamente gestite dai partecipanti», denuncia Lucarelli.

Strumento di partecipazione dal basso è anche la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare del comitato Rodotà. In tempi di crisi della democrazia rappresentativa iniziative simili possono essere un mezzo di mobilitazione ma anche di azione politica? «Se ripercorriamo la storia degli ultimi trent’anni vediamo che dopo la caduta del muro di Berlino l’Europa è passata da un modello socialdemocratico diffuso a un “nuovo” ordoliberismo», premette Lucarelli.

«A partire dal trattato di Maastricht si sono rese evidenti le radici del trattato del 1957, che hanno fortemente impattato sui singoli Stati. Ci sono stati atti europei regressivi. E anche oggi – approfondisce – vediamo che, dopo un voto  che ha mostrato segnali di interesse verso l’ecologia, i beni comuni e i diritti dei lavoratori, le nuove nomine vanno in tutt’altra direzione. In particolare quella di Christine Lagarde ai vertici della Bce. In questo quadro di crisi della rappresentanza – precisa il giurista – i processi di democrazia partecipativa possono contribuire a costruire spazi di discussione. Ma non si tratta di contrapporre la democrazia diretta a quella rappresentativa, né di sostituirla con altro. Il Parlamento europeo è un simulacro della rappresentanza, è una struttura inter governativa… occorre tornare a mettere le orecchie a terra per ascoltare cosa si muove».

L’intervista di Simona Maggiorelli al giurista Alberto Lucarelli è stata pubblicata su Left del 12 luglio 2019


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