Patrick Zaky deve avere la cittadinanza italiana. È questa la richiesta al presidente della Repubblica Mattarella che è partita dall’università di Bologna a sostegno del giovane ricercatore, arrestato in Egitto per le sue ricerche nel campo dei diritti umani. Vedere dei nemici in ricercatori e intellettuali è tipico dei regimi, ma la Repubblica italiana che tutela la libertà di ricerca come è scritto nella Costituzione, il Paese che Patrick ha scelto per il suo Erasmus, deve rifiutare recisamente questa caccia alle streghe. Sequestrato mentre tornava per un periodo di vacanza nella sua città natale, al-Mansoura, accusato di terrorismo, è stato imprigionato, torturato, nei fatti, perché andava cercando conoscenza, perché impegnato nella lotta non violenta per i diritti umani. Se l’università di Oxford non si mobilitò tempestivamente per Giulio Regeni, l’università bolognese si è mobilitata subito per il giovane ricercatore egiziano, non lasciandolo solo. Altrettanto deve fare il governo italiano con azioni diplomatiche ma anche, pensiamo noi, cessando di fare ipocritamente affari con un governo come quello egiziano che dispone di un esercito e di una polizia che torturano e uccidono. Come scrive Sabrina Certomà nel suo articolo che ricostruisce la storia di Zaky, nel 2019 (sino al 30 ottobre) sono stati 1.470 i casi seguiti dalla Suprema procura del Cairo - accusata da Amnesty di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo - e, prosegue Certomà, «345 è la media dei giorni di detenzione preventiva». Inoltre «attualmente non c’è nessuna indagine sugli abusi commessi dalla polizia durante quei periodi di reclusione». Il sistema giudiziario egiziano fa di tutto per imbavagliare dissidenti ma anche giornalisti, fotografi, ricercatori... E non è l’unico Paese purtroppo a calpestare libertà di ricerca, democrazia e diritti umani senza che questo determini una reazione forte di condanna da parte dell’Europa, una reazione cioè che vada oltre prese di posizione meramente verbali e di superficie. Nel drammatico quadro che Leonardo Filippi e Checchino Antonini tracciano dei Paesi dove i ricercatori rischiano la vita se ne segnalano molti con cui l’Europa intrattiene normali rapporti diplomatici e di interesse, chiudendo gli occhi. A cominciare dalla Turchia che l’Europa continua a foraggiare e pagare lautamente perché fermi il flusso dei migranti sull’altra sponda del Mediterraneo. Dalle ricerche di Scholars at risk network risulta che il 65 per cento dei ricercatori esuli proviene dalla Turchia, il 15 per cento dalla Siria, il 4 per cento dall’Iran. E non è solo l’area mediorientale ad essere protagonista in negativo. In questo quadro figurano anche la Cina e molti altri Paesi. Per quel che riguarda l’Iran non possiamo dimenticare il caso del ricercatore Ahmad Djalali, esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria ed ex ricercatore presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara: è stato accusato di spionaggio e condannato a morte in Iran per motivi politici. In tutto 134 premi Nobel hanno lanciato un appello alla Guida suprema iraniana Ali Khamenei perché venga rilasciato e possa tornare a casa in Svezia dove da ultimo lavorava ed aveva ottenuto la cittadinanza. Dalla Svezia Djalali aveva risposto ad un invito accademico recandosi in Iran per dare il proprio contributo a un convegno e in quella occasione è stato arrestato. Oggi è ammalato e pesa poco più di quaranta chili, le sue condizioni sono gravissime, come denuncia la moglie Vida Mehrannia. I regimi che attaccano la libertà di ricerca e il desiderio di conoscenza, attaccano non solo la democrazia, ma la persona stessa. Non possiamo accettare che studiosi che lavorano nell’interesse di tutti, che affermano valori umani universali debbano subire limitazioni, soprusi e tanto meno torture e condanne alla pena capitale. Quando le dittature non riescono a fermare la mente, attaccano il corpo. è ciò che è accaduto a Giulio Regeni, straordinaria figura di ricercatore e attivista per i diritti umani, colpito per il suo desiderio di studiare e per il suo approfondito e rigoroso lavoro di ricerca nell’ambito dei diritti sindacali, negati in Egitto. Non dimentichiamo Giulio, lottiamo perché non accada mai più. [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale è tratto da Left in edicola dal 21 febbraio

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Patrick Zaky deve avere la cittadinanza italiana. È questa la richiesta al presidente della Repubblica Mattarella che è partita dall’università di Bologna a sostegno del giovane ricercatore, arrestato in Egitto per le sue ricerche nel campo dei diritti umani. Vedere dei nemici in ricercatori e intellettuali è tipico dei regimi, ma la Repubblica italiana che tutela la libertà di ricerca come è scritto nella Costituzione, il Paese che Patrick ha scelto per il suo Erasmus, deve rifiutare recisamente questa caccia alle streghe.

Sequestrato mentre tornava per un periodo di vacanza nella sua città natale, al-Mansoura, accusato di terrorismo, è stato imprigionato, torturato, nei fatti, perché andava cercando conoscenza, perché impegnato nella lotta non violenta per i diritti umani. Se l’università di Oxford non si mobilitò tempestivamente per Giulio Regeni, l’università bolognese si è mobilitata subito per il giovane ricercatore egiziano, non lasciandolo solo. Altrettanto deve fare il governo italiano con azioni diplomatiche ma anche, pensiamo noi, cessando di fare ipocritamente affari con un governo come quello egiziano che dispone di un esercito e di una polizia che torturano e uccidono.

Come scrive Sabrina Certomà nel suo articolo che ricostruisce la storia di Zaky, nel 2019 (sino al 30 ottobre) sono stati 1.470 i casi seguiti dalla Suprema procura del Cairo – accusata da Amnesty di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo – e, prosegue Certomà, «345 è la media dei giorni di detenzione preventiva». Inoltre «attualmente non c’è nessuna indagine sugli abusi commessi dalla polizia durante quei periodi di reclusione».
Il sistema giudiziario egiziano fa di tutto per imbavagliare dissidenti ma anche giornalisti, fotografi, ricercatori…
E non è l’unico Paese purtroppo a calpestare libertà di ricerca, democrazia e diritti umani senza che questo determini una reazione forte di condanna da parte dell’Europa, una reazione cioè che vada oltre prese di posizione meramente verbali e di superficie.

Nel drammatico quadro che Leonardo Filippi e Checchino Antonini tracciano dei Paesi dove i ricercatori rischiano la vita se ne segnalano molti con cui l’Europa intrattiene normali rapporti diplomatici e di interesse, chiudendo gli occhi.
A cominciare dalla Turchia che l’Europa continua a foraggiare e pagare lautamente perché fermi il flusso dei migranti sull’altra sponda del Mediterraneo.

Dalle ricerche di Scholars at risk network risulta che il 65 per cento dei ricercatori esuli proviene dalla Turchia, il 15 per cento dalla Siria, il 4 per cento dall’Iran. E non è solo l’area mediorientale ad essere protagonista in negativo. In questo quadro figurano anche la Cina e molti altri Paesi.
Per quel che riguarda l’Iran non possiamo dimenticare il caso del ricercatore Ahmad Djalali, esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria ed ex ricercatore presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara: è stato accusato di spionaggio e condannato a morte in Iran per motivi politici. In tutto 134 premi Nobel hanno lanciato un appello alla Guida suprema iraniana Ali Khamenei perché venga rilasciato e possa tornare a casa in Svezia dove da ultimo lavorava ed aveva ottenuto la cittadinanza.

Dalla Svezia Djalali aveva risposto ad un invito accademico recandosi in Iran per dare il proprio contributo a un convegno e in quella occasione è stato arrestato. Oggi è ammalato e pesa poco più di quaranta chili, le sue condizioni sono gravissime, come denuncia la moglie Vida Mehrannia.
I regimi che attaccano la libertà di ricerca e il desiderio di conoscenza, attaccano non solo la democrazia, ma la persona stessa.

Non possiamo accettare che studiosi che lavorano nell’interesse di tutti, che affermano valori umani universali debbano subire limitazioni, soprusi e tanto meno torture e condanne alla pena capitale.
Quando le dittature non riescono a fermare la mente, attaccano il corpo. è ciò che è accaduto a Giulio Regeni, straordinaria figura di ricercatore e attivista per i diritti umani, colpito per il suo desiderio di studiare e per il suo approfondito e rigoroso lavoro di ricerca nell’ambito dei diritti sindacali, negati in Egitto. Non dimentichiamo Giulio, lottiamo perché non accada mai più.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 21 febbraio

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