A pochi mesi dalle elezioni che possono riconsegnare gli Stati Uniti nelle mani di Trump, il nuovo ordine mondiale sta cambiando. E il ruolo della Cina, con la sua continua capacità di innovazione in campo economico, sta diventando preminente

Cinacrazia versus Americatura, la sfida è aperta. Abbiamo scelto questi due neologismi, perché in estrema sintesi ben raccontano della complessità e delle contraddizioni che percorrono il nuovo ordine mondiale che si sta prospettando (fra grandi cambiamenti in economia e deficit di democrazia).
Un ordine mondiale sempre più spostato su un ordine pacifico, parola riferita all’oceano, ma che di pacifico non ha niente. Le elezioni di novembre negli Stati Uniti saranno uno spartiacque, ma è anche vero che la differenza fra democratici e repubblicani, specie per quanto riguarda la politica estera e quella dell’immigrazione, si stanno assottigliando. Intanto la democrazia Usa attraversa una profonda crisi come spiegano su questo numero David Natali e Alessandro Scassellati Sforzolini con approfondimenti che documentano le profonde faglie che attraversano l’America, divisa fra le grandi città cosmopolite e regioni della rust belt (un tempo cuore dell’industria pesante) e delle vaste aree rurali sempre più arretrate, arrabbiate, isolate, dove mancano servizi, scuole, ospedali e la vita è in media più breve. Sono regioni – dall’Alabama al New Mexico e oltre – arretrate anche sul piano culturale, chiuse in una bolla di disinformazione e terreno di “cultura” dei complottisti di QAnon e dei fondamentalisti evangelici. Snobbate dai dem, queste regioni potrebbero essere l’asso nella manica di Trump, capace di soffiare sul fuoco della rabbia sociale. Per quanto sia paradossale che agricoltori impoveriti siano disposti a dare il proprio voto a un miliardario, affarista, golpista e illiberale come Trump che certo non farebbe il loro interesse.
Intanto, come accennavamo, la differenza di opinioni fra Biden e Trump, pur da opposte sponde, si assottiglia (non solo perché entrambi anziani con vuoti di memoria), ma soprattutto riguardo al ruolo degli Usa sugli scenari di guerra. In particolare in Medio Oriente. Trump è da sempre al fianco del guerrafondaio Netanyahu e della sua missione per annientare Gaza. E Biden, nonostante i moniti, ha continuato a rifornirlo di armi. Attraverso un’intervista ad un alto funzionario Usa, la Cnn per prima ha parlato dell’appoggio di Biden alla scellerata operazione pianificata dal primo ministro israeliano contro Hezbollah, milizia armata, sostenuta dall’Iran che opera come uno Stato nello Stato in Libano e ben diversamente attrezzata militarmente rispetto ai miliziani di Hamas. L’escalation si tradurrebbe in una guerra fra Israele e Libano, che potrebbe deflagrare in una guerra totale.
Rispetto a questi nuovi inquietanti scenari l’Europa tace, continuando intanto nella folle corsa per armare l’Ucraina. Alle prese con la designazione dei top Jobs, (con la riconferma di Von der Leyen, ma con l’asse franco tedesco decisamente indebolito e con una preoccupante avanzata delle destre) l’Unione europea appare distratta, incapace di cogliere la gravità del momento, dopo oltre due anni di guerra in Ucraina e con il peggiorare di giorno in giorno della catastrofe umanitaria a Gaza, ridotta dal gabinetto di guerra israeliano ad una terra desolata e inabitabile, mentre le vittime sono ormai più di 35mila mila secondo l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite fra cui si contano 14.500 bambini. Ma aumentano anche i morti in Cisgiordania, di cui ancora meno si parla, con l’avanzamento dei coloni israeliani spalleggiati e legittimati dal governo religioso e di ultra destra guidato da Netanyahu. Non dimentichiamo che è stato accusato dalla Corte penale internazionale guidata da Karim Khan, di essere un criminale di guerra (al pari dei capi di Hamas) e che la Corte di giustizia internazionale, su denuncia di una schiera di Stati capeggiati dal Sudafrica, ha accertato l’esistenza di sufficienti indizi per approfondire l’istruttoria sul reato di genocidio a carico di Israele.
Ma si sa, i tempi della giustizia internazionale sono lunghi e urge una soluzione politica. Chi potrebbe farsene promotore nello scenario globale?
Del piano di Biden in tre fasi per fermare la guerra a Gaza si sono perse le tracce. Intanto nessuno pensa a imporre il cessate il fuoco. E le cancellerie europee, compresa quella italiana, ripetono stancamente il mantra “due popoli due Stati” senza fare concretamente nulla per rendere realizzabile questa soluzione o per trovarne altre, come l’ipotesi lanciata già vent’anni fa dall’intellettuale palestinese Edward Said: uno Stato laico binazionale con capitale Gerusalemme Est.
L’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu (lo scorso 10 giugno) del piano Usa per la tregua, con l’ok della Cina e l’astensione della Russia ha rappresentato un passo importante ma neanche quella prospettiva si è ancora concretizzata. In questo scenario la Cina potrebbe voler assumere un ruolo di mediatore di pace? Era ciò che sembrava trapelare a fine maggio quando il presidente Xi Jinping durante il Forum di cooperazione Cina- Stati Arabi ha ribadito: «Pechino sostiene fermamente la creazione di uno Stato palestinese, indipendente che goda di piena sovranità sulla base dei confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale. E sostiene la piena adesione della Palestina all’Onu». Annunciando altri 500 milioni di yuan per la crisi umanitaria a Gaza e 3 milioni di dollari all’Agenzia delle Nazioni unite Unrwa, per sostenere le operazioni di assistenza umanitaria d’emergenza, Xi aveva anche prospettato una conferenza di pace internazionale «ampia, autorevole ed efficace».
Nel frattempo un conferenza di pace si è tenuta a Lucerna in Svizzera per l’Ucraina ma si è conclusa il 21 giugno con un nulla di fatto anche perché mancavano i principali attori, a cominciare dall’aggressore, la Russia, e da mediatori che avrebbero potuto avere un peso come la Cina, di cui Mosca è ormai junior partner. Ma anche Biden si era sfilato, inviando pro forma la sua vice Kamala Harris.
Le elezioni americane incombono, ma anche le questioni economiche a cominciare dal braccio di ferro che gli Usa hanno ingaggiato con la Cina attraverso una nuova guerra dei dazi. Anche di questo ci parla il sinologo Federico Masini tracciando un approfondito quadro dei grandi cambiamenti che stanno avvenendo nel Paese anche dal punto di vista economico: da grande produttore di merci a basso costo, la Cina è diventata in poco tempo protagonista nell’ambito dell’high tech e nel settore dell’auto elettrica.
E gli Usa ne subiscono la corsa come dimostrano le reiterate uscite di Biden che stigmatizzano la overcapacity cinese, ovvero la sua sovraccapacità produttiva in settori strategici. Da qui la rischiosa scelta di imporre dazi a Pechino, una strategia che Washington ha già adottato facendo pressione perché Bruxelles faccia altrettanto. Per aggirarli Xi Jinping sta già pianificando di delocalizzare l’assemblaggio di auto elettriche in Europa. Così va il mondo globalizzato in cui si rovescia il gioco delle parti.