Scie chimiche, catene di Sant’Antonio e teorie del complotto, nell’era della rete navigare fra le bufale sembra ormai essere la norma. E soprattutto i social network, quelli che secondo una delle ultime dichiarazioni di Umberto Eco «hanno dato la parola a legioni di imbecilli», si trasformano spesso in dei megafoni per la stupidità. Ma come si diffonde la disinformazione online? E soprattutto perché le false notizie diventano così virali, dilagando in tempi rapidi fra migliaia e migliaia di persone in rete senza venire smentite? La risposta ce la può dare un recente studio internazionale, ma dall’animo italiano visto che a condurlo è stata Michela del Vicario del Laboratory of Computational Social Science dell’IMT Alti Studi Lucca, insieme ad altri colleghi provenienti da altre università, fra le quali spicca anche la Boston University. I dati analizzati sono stati raccolti in 5 anni di ricerche (dal 2010 al 2014) e monitoraggio continuo di 69 fan page facebook, 32 delle quali impegnate per lo più a diffondere teorie cospirative, 2 animate da quelli che nel gergo della rete vengono definiti “troll” e altre 35 dedicate alla pubblicazione di notizie scientifiche e verificate. Le persone coinvolte, con gradi di interazione e partecipazione diversa (si va dal semplice like fino al commento e alla condivisione dei post bufala), sono oltre 1 milione in termini di commenti e circa 5 milioni in termini di like. Da questa mole impressionate di informazioni Del Vicario e compagni hanno ricavato una costante nel comportamento dei vari utenti e capito che su facebook si preferisce ricercare informazioni che confermino le proprie convinzioni. Gli utenti infatti preferiscono trincerarsi all’interno di frequentazioni online e comunità social che condividono con loro le stesse vedute ristrette e riducano al minimo il rischio di mettersi in discussione. Una bufala quindi si propaga rapidissimamente proprio perché viene diffusa tra persone che hanno un pregiudizio e che sono portati ad assumere la notizia come veritiera senza soffermarsi anche solo per un attimo a valutare le fonti.
«Le persone per lo più tendono a selezionare e condividere i contenuti sui social network in base ad una narrazione specifica che sentono affine alle proprie idee e ad ignorare il resto» spiega Michela Del Vicario. Il risultato su facebook è la formazione di una grande quantità di comunità omogenee all’interno delle quali le nuove informazioni che confermano le idee del gruppo si diffondono rapidamente, generando una sorta di “stupidità virale” nella quale dominano voci infondate, sfiducia e paranoia.
Con l’avvento del web 2.0, sì è parlato di “intelligenze collettive”, ovvero di quella capacità degli utenti di aggregarsi dal basso e collaborare per risolvere problemi e inventare soluzioni. La ricerca di Del Vicario e colleghi però sembra frenare gli entusiasti e mettere in evidenza anche un lato negativi di questa tendenza aggregativa del web, soprattutto su social come Facebook, dove appunto non sempre il “lavoro di gruppo” produce intelligenza. «Internet amplifica le nostre tendenze, e di sicuro sui social avviene ancora di più. Da quanto abbiamo osservato, sembra proprio che non si possa parlare di collective intelligence ma proprio del contrario. Nel “mondo piccolo” di Facebook infatti le abitudini e le credenze sbagliate infatti finiscono per rafforzarsi ulteriormente».
Sulla diffusione di stupidaggini influisce anche lo stesso algoritmo su cui si basa la piattaforma di Zuckerberg. «L’algoritmo – spiega Del Vicario – incide nella misura in cui acuisce l’effetto di queste camere d’eco che si creano all’interno di Facebook. Non abbiamo idea con precisione della formula applicata da Zuckerberg, ma in generale possiamo dire che tende a non mettere in discussione gli utenti e a mostrare loro contenuti che apprezza, che può commentare e condividere. Questo però non è l’unico fattore, nell’amplificazione delle bufale incidono in maniera importante anche le scelte personali dell’utente e quelle del suo background culturale. In poche parole facebook e stupidità degli utenti finiscono per essere due fattori che si autoalimentano».
Per frenare il dilagare delle bufale in rete sono anche nati dei siti, impegnati a smascherare le false informazioni e a diffondere la pratica del fact checking. Ma a quanto pare anche questo non è sufficiente. Spesso infatti questi “disinnescatori di bufale” però falliscono perché, come evidenzia lo studio, l’utente anche messo di fronte all’informazione corretta, continuerà ad attingere alle fonti che trova in linea con la sua identità anche se si tratta di siti cospirativi e poco attendibili.
«In realtà – spiega Del Vicario – sarebbe molto semplice entrare in contatto con informazioni affidabili e corrette, basterebbe cercare la notizia e verificare le fonti, anche se nella pratica nessuno lo fa perché richiede una serie di competenze e un impegno maggiore da parte dell’utente per valutare le informazioni». Umberto Eco insomma non aveva tutti i torti quando si scagliava contro il popolo del web. I social non ci rendendo scemi, ma fanno da megafono, nel bene e nel male, a quello che siamo. E infatti probabilmente è lì che dovremmo trovare una soluzione a tutto questo sviluppando anche percorsi educativi diversi e più consapevoli. Percosi che non insegnino verità dogmatiche ma forniscano strumenti concreti, come il ragionamento, per orientarsi nella mole enorme di informazioni che abbiamo a disposizione grazie alla rete.
@GioGolightly