Il mondo della cultura si mobilita per Valentino Zeichen. Il poeta è stato ricoverato in ospedale dopo essere stato colpito da ictus. Il timore era anche di non poter rientrare nella casa dove vive da anni in maniera precaria. Ripubblichiamo qui l’intervista dal titolo Una questione di sensibilità che ci aveva concesso in occasione dell‘uscita del suo primo romanzo La sumera,(Fazi) in un primo momento selezionato per il Premio Strega.
«Ho iniziato a leggere con assiduità in riformatorio: c’era una biblioteca prevalentemente di libri d’autore» racconta il poeta Valentino Zeichen. «Costituiva un potenziale conoscitivo disinnescato, dato che la maggior parte degli internati erano analfabeti». Fu così che «avventurandomi per caso lungo certi scaffali feci degli incontri affascinanti, Salgari, Tolstoj, Dostoevskij, Swift. Leggevo intuitivamente e cominciai a fare nessi fra i libri».
Così si presentava Zeichen nel 1975 nel volume .Il pubblico della poesia curato da Berardinelli e Cordelli per Castelvecchi. Nato nel ‘38 a Fiume e approdato a Roma nel ‘50, scappando da una famiglia che era quasi peggio del riformatorio, Zeichen da allora vive in estreme ristrettezze nella Capitale, scrivendo soprattutto poesie,«Penso che il poeta sia un servizio pubblico, che debba essere accessibile a tutti», dice di sé. Respingendo però l’idea di chiedere un aiuto. «La legge Bacchelli equivale/ a un premio Nobel della miseria/anche se salva tanti finti artisti dalla miseria», annota in Aforismi d’autunno. La misura breve, aforistica alla Karl Kraus, l’espressione ironica , fulminante, una scrittura icastica e leggera sono da sempre la cifra letteraria di Zeichen. Che dopo molte raccolte di poesie ora, in età matura, esordisce nel romanzo con La sumera, edito da Fazi. Il 19 marzo Zeichen ha parlato con Aurelio Picca e Renato Minore a Libri Come di questo libro che celebra la bellezza di una Roma dove gli dei sono atei. E quella delle ragazze incontrate nei pomeriggi d’estate nei musei. («In fondo alla scalinata si rese conto che quel volto apparteneva all’arte dello scolpire e non del dipingere»).
Sempre disponibile al dialogo e all’incontro Zeichen ci accoglie dicendo.«Abbiamo tutto il tempo, il mio è a perdere, scorre».
Perché un romanzo dopo una vita da poeta?
A pranzi o alle cene ho ascoltato molte conversazioni in vita mia. Fondamentale per scrivere romanzi è un vero ascolto. È importante capire, sentire il senso del ritmo delle battute, capire quando una conversazione crolla e perché. Gli scrittori anglosassoni sono bravi nei dialoghi, proprio perché stanno attenti a quello che gli altri dicono. La risposta è veloce, a tempo. In passato ho scritto radiodrammi, ho una certa praticaccia.
È in parte autobiografico questo ritratto di Roma anni Ottanta?
Forse sì e poi c’è la Roma di allora, certi scenari, problemi climatici, di clima culturale.
Si diverte a prendere in giro i manierismi delle avanguardie, il teatro catacombale, in antri bui con sedie scomode, per dirla alla Ennio Flaiano.
C’è una certa teatralità tipica di quegli anni, una teatralità soprattutto gestuale, non dialogica. Ma soprattutto c’è l’arte. Sì l’ossessione dell’arte. Uno mette nei romanzi o nelle pièce ciò che conosce meglio.
Una passione che innerva anche il linguaggio?
Come no? Lo nutre. La felicità dei romanzi sta in quello che uno ama e sente. D’un tratto mi sono reso conto che oggi tutti sono molto ragionevoli, molto abili nel ragionamento, accade socialmente, ma io dico la sensibilità dove è finita? È morta? Le persone non sono più sensibili? Neanche la parola viene più usata. “Sensibilità “sembra una parola assolutamente scomparsa, quasi fosse psicotica, qualcosa di malato da rifiutare.
Mancano di fantasia le trovate di artistar come Hirst con il suo teschio di diamanti ?
Mi viene da ridere quando penso a Damiem Hirst. Gli ho dedicato il testo teatrale Apocalisse dell’arte, che ho scritto per Le Edizioni della Cometa. Lei sa che al museo della scienza di Vienna c’è il varano di Comodo? In quel testo ho immaginato che Hirst si presenti all’ingresso con i documenti per trasportarlo al Kunsthistorisches Museum che sta davanti a quello della scienza. Così, con un trasloco, crede di aver risolto la faccenda e di aver cambiato di segno quel meraviglioso oggetto imbalsamato.
Hirst lo ha fatto con lo squalo in formaldeide!
Esatto! Si potrebbe fare, ho immaginato io, anche con il varano. Sarebbe una cosa pazzesca. Una lezione sull’assurdità dell’arte da Duchamp in poi.
Portando l’orinatoio al museo ci ha fregato?
Beh, certo, Duchamp ha fatto un bello scherzo a tutta l’arte successiva a lui. Portando qualunque cosa, qualsiasi oggetto, nello spazio museale, lo distruggono. Non c’è più l’aura dell’arte, ma solo la diffamazione di essa. La sensazione è questa…. come vede io rincorro sempre la sensibilità, la mia disperazione è un po’ questa. La morte della sensibilità, che non c’è più.
Oltre alla sensibilità ciò che conta per il poeta è la fantasia, che lei sembra distinguere dall’immaginazione, parlando di Shakespeare. È così?
Io dico che vanno a braccetto. Esiste un’immaginazione concettuale e c’è una fantasia che apre al possibile. È ciò che non si trova nella tassonomia delle scienze. Invece la fantasia contamina il reale, è l’imprevedibile…
Al fondo cosa la colpisce di più in Shakespeare?
Come è possibile che con un inglese di quattrocento anni fa possa produrre quel ventaglio di sentimenti, di conflitti e anche di grandi riflessioni? Questo è veramente il meraviglioso. Evidentemente l’inglese oggi è una lingua funzionale piena di neologismi adatti a questo scopo. Però lui, con una lingua seicentesca, in formazione, riesce a dire un mondo. Ecco la meraviglia, che commuove.
Tra i poeti italiani del Novecento ?
Amo i versi di Montale. Ma trovo anche che una poesia come “La pioggia nel pineto “di D’annunzio sia inimitabile, perché è costruita con un ritmo particolare… è costruita con l’acqua…
Invece non ama molto Pasolini, mi par di capire. Non mi interessa molto, le sue problematiche non mi interessano. Era un moralista?
Sì, forse, nel senso che avrebbe voluto privare del progresso futuro i giovani. Dopo l’Unità d’Italia aspiravamo a diventare un paese moderno, sviluppato. Con questa sua visione antimoderna, per una sorta di ingenuità bucolica, negava il valore di quello che tutti desideravano, pretendeva che non lo desiderassero. Ma non puoi continuare a zappare se c’è il trattore, non puoi pretendere che la gente usi la vanga o l’aratro tirato da un cavallo, da una bestia da soma, se sono state inventate le macchine.
Dunque questo suo vivere ai margini, questa sua vita un po’ bohémien, senza agi, non è dettata anche da un rifiuto della modernità?
Assolutamente no! Io sono modernissimo. Sono per la tecnica.
Una volta si è definito un ribelle, cosa significa per lei questa parola?
Forse un ribelle individualmente. Significa avere una propria opinione. Avere punti di vista diversi da quello che è il pensiero corrente. Per esempio non mi sono mai occupato d politica, non ho mai sposato un partito. Sono un impolitico come diceva Thomas Mann, non perdo tempo in giochi di ingegneria sociale, come ha fatto invece la gran parte dei miei coetanei, che hanno perso la testa intorno a questo problema, che forse non spettava loro.
La poesia come ricerca di un senso più profondo è una forma di ribellione al linguaggio razionale e ordinario?
Sì la poesia può far capire degli aspetti della vita. Ma anche della società. In questo senso io sono un poeta ironico, con un certo humour. Questo mi viene abbastanza riconosciuto dalla critica. In questo c’entra anche il fatto che ho una vita particolare, sono profugo, fiumano, vivo a Roma, le sono fedele perché mi ha accolto. In un certo senso me la sono cavata, ho fatto diversi lavori, sono uno che non parte da situazioni di privilegio. Anzi.
Adesso come vive la candidatura a un premio ufficiale come lo Strega?
Come vivo questa cosa? Ad essere del tutto franco, qualunque sia l’esito… con una buona dose di indifferenza.