L'artista svizzera racconta la sua ricerca in occasione della sua partecipazione all'undicesima edizione di Bande de Femmes, il festival di fumetto e illustrazione organizzato dalla Libreria femminista Tuba, a Roma

Léa Katharina Meier è un’artista svizzera multidisciplinare che sta concludendo dieci mesi di residenza presso l’Istituto svizzero di Roma. La sua pratica varia dalla performance ai tessuti, dal disegno alla scrittura. Ha esposto il suo lavoro in diversi teatri e spazi artistici e nel 2021 ha vinto il Premio della giuria e il Premio del pubblico allo Swiss Performance Award con lo spettacolo Tous les sexes tombent du ciel. La incontro a Roma in un pomeriggio di giugno, in vista dell’undicesima edizione di Bande de Femmes, il festival di fumetto e illustrazione organizzato dalla Libreria femminista Tuba, che si tiene fino al 6 luglio. Meier partecipa attraverso l’esposizione di alcuni suoi nuovi disegni, di un fanzine con una fiaba legata al suo ultimo progetto e con una pubblicazione intitolata Jour de Fête.
Nella tua attività artistica ti occupi delle nozioni di vergogna, sporcizia e pulizia. Da cosa nasce il tuo interesse per questi temi?
Sono legati alla mia storia personale. Intendo questi concetti sia in un senso materiale, come pulizia delle strade o dei corpi, sia a un livello più metaforico, ad esempio in riferimento ai nostri desideri o al rapporto con l’autorità. Anche per la mia storia familiare ho visto come talvolta le persone che hanno delle dipendenze o altri disturbi vengano considerate come “sporche” in un certo senso. Questo per me è stato importante per comprendere meglio anche le costruzioni sociali della classe, del razzismo, della sessualità e del genere. Penso che il mio interesse nasca da questo: dalla volontà di capire come la società tenda a normalizzare anche con la narrativa di ciò che è sporco e di ciò che non lo è.
Hai scelto di proseguire la tua ricerca in Italia anche perché volevi approfondire queste nozioni in un contesto segnato dal fascismo e dalla presenza del cristianesimo. Sei andata avanti in questa direzione?
Quando sono arrivata qui avevo in mente di continuare una ricerca che avevo cominciato in Brasile sull’igiene e la pulizia nella politica e su come questo è stato usato durante il colonialismo, perché stavo portando avanti una ricerca sul passato coloniale della Svizzera. Avevo pensato che qui a Roma sarebbe stato interessante continuare questo lavoro. Ma piuttosto che su queste tematiche ho avuto voglia di lavorare sulla vergogna, una tematica molto presente nel mio lavoro, che si lega alla pratica performativa tipica del clown.
Come stai lavorando su questo?
Mi sono interrogata su come sviluppare una pratica collettiva della vergogna. All’inizio di maggio ho rappresentato il tentativo di una nuova performance, non ancora terminata, e devo dire che per me è stato molto interessante e bello vedere la ricezione del pubblico in Italia. Ho avuto la percezione che ci fosse una reticenza forse più ampia rispetto a quella cui sono abituata, forse a causa del cattolicesimo. La regione in cui sono cresciuta in Svizzera è protestante, e questa è già una grande differenza. Personalmente, cerco di provocare un sentimento non solo di vergogna, ma anche di ilarità e giubilo, perché credo che la vergogna in pubblico passi anche molto per il riso. Ho trovato una risonanza a questo livello: avere piacere di ridere tutti insieme.
La performance si intitola La grande-biblioteca-bagnata-umida-lubrificata-Vergognosa e l’hai definita una «ricerca testuale e visiva sulla trasformazione della vergogna in giubilo all’interno delle esistenze lesbiche». Perché hai scelto di legare questo tema alle biblioteche e agli archivi?
Nella mia ricerca c’è stato un libro molto importante per me, che si intitola An archive of feelings. Riguarda i lavori di artiste lesbiche che hanno vissuto anche esperienze di violenza sessuale, e come loro le trasformano in loro lavori artistici. Considerare i sentimenti come una specie di archivio, per me, vuol dire porli allo stesso livello del sapere scientifico. E penso che questo nel mio lavoro sia molto importante.
Nel testo della performance c’è anche un riferimento alle storie ignorate e dimenticate.
Sì, per me è importante sviluppare questo tipo di narrativa. Come persona lesbica, penso che le narrazioni lesbiche sono state molto cancellate, e parlo soprattutto di quelle positive. Molto spesso, quando vediamo un film con due donne che hanno una relazione, si tratta di una pellicola drammatica. A me non interessa creare delle utopie in cui tutto è positivo, ma vorrei trasmettere un certo senso della felicità o del piacere.
Come dialogano nella tua pratica artistica le diverse discipline?
Quel che mi interessa creare un mondo immaginario che ha molto a vedere con la fiaba. Per far questo, per me è necessario tanto l’aspetto performativo quanto quello visuale e tattile. Cerco di sviluppare dei lavori che parlino molto coi sentimenti ma anche coi sensi. Nella pratica performativa comincio a volte dai disegni, che magari mostrano un sentimento particolare o un tipo di atmosfera che mi interessa riprodurre nella realtà. Anche la pratica del costume si relaziona con l’illustrazione, perché a volte i costumi provengono dai disegni che ho fatto, oppure realizzo dei grandi disegni sui tessuti.
La scrittura arriva in un momento successivo?
Penso si tratti più di una stratificazione. C’è quasi sempre del testo, ma in genere i disegni vengono prima. Poi c’è la performance, ma torno sempre al testo e al disegno».
Tra il 2018 e il 2019 hai trascorso un periodo a San Paolo per un’altra residenza artistica. Cosa porti con te dell’esperienza brasiliana?
Sono stata diverse volte in Brasile, sia per una residenza sia per lavorare, ma dopo anche solo per andare a trovare degli amici. In Svizzera ho studiato Arti visuali e all’università la prospettiva era molto centrata sull’Europa, sui lavori di uomini cis e persone bianche. C’era una visione molto eurocentrica sull’arte in generale. Quindi per me è stato molto importante trovarmi in Brasile e lavorare con artisti brasiliani, tanto per il mio lavoro artistico quanto per la mia interiorità e lo sviluppo del mio pensiero politico o artistico. Inoltre per me è stato molto interessante, dal momento che pratico anche performance, il fatto che a San Paolo le persone hanno una relazione diversa col corpo e la corporalità.
Chi sono gli artisti che ammiri particolarmente?
Mi piace molto il lavoro di Carol Rama, un’artista italiana che ha realizzato sia sculture sia disegni e pitture. Negli ultimi tempi sono stata ispirata anche da diversi libri, perché il mio lavoro si è incentrato su una ricerca sull’archivio e sul libro non solo come oggetto materiale ma anche come paesaggio per costruire il mondo che sto cercando di sviluppare nel mio lavoro. Ultimamente, gli scritti di Dorothy Allison, Monique Wittig, Toni Morrison o il libro “Tupamadre” di L.Etchart sono stati importanti. A un livello più estetico, penso che sono stata molto impregnata dai film di John Waters, che ha sviluppato un tipo di estetica “sporca” che ha avuto un ruolo nel mio percorso artistico.
Hai sempre disegnato?
Sì. La pratica del disegno per me è corporale e insieme riflessiva. E poi i disegni sono una porta d’entrata nella pratica performativa: mi servono per riflettere sulla scenografia, ma anche sulle atmosfere, sui costumi e tutto il resto.
In che senso il disegno è una pratica del corpo?
Banalmente perché per me è importante fare delle cose con le mani. E poi forse in un certo mondo anche disegnare e creare dei mondi diversi con le mie mani è anche un modo non solo per immetterle nella realtà materiale del mondo ma anche di farle mie, o ingerirle.
Nei tuoi disegni colori molto accesi si contrappongono ai grigi delle scene di città. Giochi su questa contrapposizione?
Sì, certo. Molte volte quando scrivo è sempre una fiaba e le mie fiabe si ambientano sempre in una città. Mi piace vedere le città quasi come dei personaggi. E devo dire che anche le cose grigie della città mi piacciono tanto in generale.
Quale pensi che debba essere il rapporto tra arte e politica?
Dipende molto. Per me avere un’educazione politica è sempre stato importante. Nel contesto in cui ci troviamo oggi, in cui c’è un ritorno dell’estrema destra e che un genocidio è in corso contro la popolazione palestinese, penso che come artist* abbiamo la responsabilità di prendere posizione, ad esempio su un cessate il fuoco definitivo, e mostrare che altri mondi sono possibili. Inoltre, quando lavoro in teatro con molte persone penso sia importante cercare di avere un’atmosfera di lavoro che vada bene per tutte e tutti. Ritengo che anche questo sia politica: scegliere con chi hai voglia di lavorare e in che modo farlo.

L’autrice: Anna Ditta è giornalista e autrice. Maggiori info su www.annaditta.it