Racconta Piero Gobetti che l’intransigenza morale di Matteotti si manifestava nel suo rifiuto della politica dell’apparenza e nella pratica della concretezza.

Racconta Piero Gobetti che l’intransigenza morale di Matteotti si manifestava nel suo rifiuto della politica dell’apparenza e nella pratica della concretezza: emblematico del suo stile è l’episodio di quando nel ’19 a un organizzatore che gli chiedeva di mandargli una fotografia da mettere sui manifesti spedì tranquillamente quella di un amico (Piero Gobetti, Matteotti, ed. or. 1924, ora ristampato dalle Edizioni di storia e letteratura, Roma 2014, p. 25). Il profilo di Matteotti che Gobetti scrisse e pubblicò a caldo subito dopo il delitto – e poco prima di essere anche lui costretto a emigrare e a morire giovanissimo a Parigi -, è un grande classico da leggere e meditare come un rimorso: ai nostri tempi una carriera politica si costruisce nei salotti televisivi coi sorrisi di soubrette e di giornalisti cortigiani. E leggendo come Matteotti affrontasse gli incontri coi contadini in sciopero e i loro padroni, preparandosi attentamente sulle questioni dei patti agrari, ci si chiede quale mai esperienza del lavoro abbiano oggi i politici di mestiere.

Sanno davvero per esperienza propria che cosa significhi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? O almeno hanno mai riflettuto sul perché la Costituzione italiana si apre con quell’articolo 1 che ne è la porta d’ingresso? Nelle polemiche di questi giorni il punto di discrimine resta quello fissato in quell’articolo: si può dire ancora che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro? E se non è più vero, allora su che cosa è fondata l’Italia? La risposta alla prima domanda è semplice: oggi il lavoro è tutto fuorché il fondamento di qualcosa. Al suo posto quello che unisce gli italiani è l’assenza di lavoro: per cui si potrebbe dire che al posto del lavoro come realtà c’è oggi il bisogno di un lavoro come sentimento, ossessione, speranza. E intanto la parola ha cessato di indicare una condizione generale dell’appartenenza sociale, un termine capace di unificare lavoro intellettuale e lavoro manuale, artigianato e lavoro di fabbrica. Al suo posto c’è un arcobaleno cangiante di episodiche prestazioni d’opera, senza durata e senza prospetive: c’è il lavoro mordi e fuggi, diverso da luogo a luogo, da stagione a stagione, una sostanza liquida, inafferrabile, che non consente di costruirvi sopra nessuna prospettiva di vita – crearsi una famiglia, assistere gli anziani, avere dei figli, pensare al loro futuro senza angoscia.

Oggi si tenta faticosamente di dar vita a un movimento dei lavoratori come forza collettiva. Ma per farlo bisogna partire non più dalla difesa del lavoro come realtà ma dalla rivendicazione di un diritto: quello di avere un lavoro che sia tutelato dalla legge. Ma si può ancora chiamare lavoro quello che comincia la mattina e la sera è già finito? I contratti di un giorno sono stati 687mila nel solo primo semestre del 2011. E c’è di peggio: ci sono i lavoratori che lavorano gratis . Nelle nostre istituzioni culturali – biblioteche, archivi, musei – il fenomeno è diffuso: chi scrive ha in mente tanti giovani laureati che arrivano al mattino e prendono i posti lasciati da impiegati oggi in pensione, per chiudere la sera col solo compenso di un panino e di un biglietto dell’autobus. A loro forse pensava Ignazio Visco quando, parlando di lavoro a Bologna nel sessantesimo della casa editrice Il Mulino, ha citato la frase del Candide di Voltaire: «Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno». Visco ha aggiunto considerazioni ovvie in quel contesto, ma del tutto scisse dalla realtà italiana di oggi: ha detto che bisogna investire in conoscenza, alzare il livello della formazione dei giovani, ridare impulso all’università e alla ricerca. Ora, lo studio potrà salvare dalla noia e dal vizio, forse, anche se la cosiddetta “notte dei ricercatori” ha riempito le piazze di giovani ubriachi. Ma il bisogno no, quello resta. E anche chi conquista un lavoretto retribuito non sfugge alla malattia che ha roso le radici della convivenza civile , ha cancellato il senso della prospettiva e della durata nel nostro paese: si chiama precarietà. E si tratta di una malattia di lunga durata, non riguarda solo i giovani, visto che l’età media dei parasubordinati è di 42 anni. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: per esempio, la denatalità. I figli che nascono sono pochi e dietro ogni nascita c’è in genere una madre che ha finalmente conquistato un posto di lavoro.

Nel vuoto del lavoro come realtà resta il sentimento di un furto, di un diritto perduto. Ed è a partire da qui che si comincia a prendere coscienza di come, passo dopo passo, la Costituzione è stata svuotata e sovvertita. La cancellazione dell’articolo 1 ha portato con sé un ribaltamento del sistema dalla democrazia al populismo, dal diritto a un sistema di sicurezza sociale e di istituzioni di tutela dei meno fortunati a erogazioni di qualche soldo in cambio della cancellazione dell’articolo 18, questo simbolo estremo del diritto a un lavoro che non sia sinonimo di soggezione del servo all’arbitrio del padrone.