La siderurgia italiana sta sparendo perché sono scomparsi i padroni. O meglio si stanno affermando padroni di tipo nuovo, che hanno nella finanza il proprio core business.

E se Renzi e Poletti avessero ragione, e non ci fossero, o fossero in vista di sparizione, quelli che il sindacato e la sinistra chiamavano “padroni”? Che certamente sfruttavano e subordinavano ogni cosa al massimo profitto, ma che traevano una qualche legittimità, anche per la loro controparte, per il fatto che rischiavano capitali propri, organizzavano i fattori della produzione, investivano in tecnologie. Quelli insomma convinti che per fare profitto fosse necessario produrre cose e far lavorare persone?

Se pensiamo alle vicende della siderurgia qualche dubbio viene. La siderurgia italiana sta sparendo perché sono scomparsi i padroni. O meglio si stanno affermando padroni di tipo nuovo, che hanno nella finanza il proprio core business, nel mondo globalizzato il loro orizzonte di riferimento, indifferenti a quello che la loro produzione significa per il Paese che ospita le loro fabbriche, e alle ricadute sociali ed ambientali che la loro produzione ha per il territorio.

Alla Lucchini, all’Ilva, all’Ast di Terni. E che in nessuna di queste situazioni hanno saputo proporre progetti industriali di risanamento e di rilancio degni di questo nome. L’Italia rischia di restare senza acciaio. Quello che serve a fare i binari, quello che fornisce i semilavorati di base al resto dell’industria manifatturiera, e gli acciai speciali di Terni, uno degli esempi più alti di innovazione tecnologica e di sapere operaio messi in atto per tenere insieme produttività e sostenibilità sociale ed ambientale del processo produttivo.

Gli unici piani industriali li hanno prodotti gli operai e i loro sindacati, col concorso attivo delle comunità locali. Credo sia saggio, per individuare una via d’uscita, prendere atto del fallimento del mercato nella capacità di conciliare profittabilita, sostenibilità, e interessi generali del Paese. E che occorra pensare, non come un ritorno all’antico, ma con uno sguardo rivolto al futuro, alla nazionalizzazione dell’industria siderurgica.

Come propone Landini, ma anche, obtorto collo, un confindustriale vecchio stampo come Bombassei. Per quest’ultimo si tratterebbe di una misura provvisoria, in attesa che spuntino nuovi padroni. Credo che non ne spunteranno. E che la soluzione possa venire solo da una sinergia fra l’intervento pubblico statale e l’intelligenza e il sapere presenti in quelle imprese e nella comunità locali. La vecchia siderurgia potrebbe essere il punto di avvio di una nuova fase, in cui la statalizzazione della produzione si coniuga con la partecipazione attiva dei lavoratori e delle comunità locali alle scelte strategiche d’impresa.