Numero zero (Bompiani) di Umberto Eco è un libro anche godibile e utile ma non è un vero romanzo, benché si proponga come tale. È tante altre cose: una “Bustina di Minerva” dilatata oltre 200 pagine, un repertorio di argute boutade, un manualetto sulle regole tacite del giornalismo.
Sviluppa un teorema del Cimitero di Praga (se si può fabbricare un falso che sembra autentico cade la distinzione tra vero e falso), declinandolo nella manipolazione giornalistica, che può consistere anche solo nell’allineare notizie eterogenee creando allarme. E aggiungendo un’intuizione notevole: la trasparenza vige nei regimi dittatoriali, mentre i misteri ci sono solo in democrazia, ma a nessuno gliene importa più nulla perché qualsiasi verità viene presa per l’ennesima “narrazione”. Un universo orwelliano, morbidamente dispotico.
Alla fine leggiamo che nessuno si vergogna neanche più. Ma di cosa potrebbe oggi alimentarsi un sentimento di vergogna se condividiamo la visione uniformemente cupa di Eco? Non dell’amore per la verità (per lui indistinguibile dalla menzogna). Numero zero non è un romanzo perché non ne ha la lingua – incolore, con prelievi dal gergo della middle class culturale («Avevo visto Maia così basita …» o «Sentivo di amare sempre più quella creatura che, da sgricciolo protetto si era trasformata in lupa fedele…») -, non ne ha i personaggi, volutamente unidimensionali (sembrano usciti dal “Dottor Rigolo” di Pericoli e Pirella), non ne ha la trama (mero calco dalle cronache attuali: una redazione deve creare un quotidiano destinato alla macchina del fango).
Oltre all’ossessione per le barzellette, la goliardia e i calembour epistemologici («Perché un angolo retto mi- sura novanta gradi? Domanda mal posta: lui non misura niente, sono gli altri che misurano lui»). Per accorgersi che si tratta di un falso romanzo basta paragonarlo, che so, a Ferito a morte di La Capria, all’ Isola di Arturo della Morante, a Todo modo di Sciascia…
Un lettore dotato di senso comune si godrà il libro per molte ragioni ma potrà facilmente riconoscere che in quanto romanzo è una abile ma evidente contraffazione (è il “numero zero” di un romanzo), sottraendosi così felicemente – sorpresa finale! – proprio al teorema Eco, all’idea cioè che non si possa più distinguere tra vero e falso.