Ancora una volta, questo teatro nauseante, prevedibile e interminabile ci ricorda che l’Italia non ha mai creato un proprio rituale laico per le successioni dinastiche e gli avvicendamenti istituzionali.

Il terzo giorno (delle elezioni presidenziali) il sistema politico italiano risuscitò da morte: un corpo elettorale composto per lo più da nominati e non da eletti scelse e votò il suo candidato. E oggi siede alla destra dell’eletto. Intanto un coro di giornalisti genuflessi ha intonato il Magnificat e il Te Deum.

L’ostensione televisiva ha reso visibile il protagonista del culto in tutte le sue apparizioni. Una semplice passeggiata domenicale per le strade di Roma è diventata un miracolo di poco inferiore al camminare sulle acque del lago di Tiberiade. L’uscita da Messa circondato da suore devote, il ricorso non all’auto blu ma alla Panda di una Fiat pur sempre un po’ italiana, sono stati oggetto di infiniti e ammirati commenti.

Le poche parole dette dall’eletto subito dopo l’elezione hanno strappato gridolini di ammirazione per la loro brevità da chi per anni aveva commentato quotidianamente e devotamente le parole – molte – del predecessore. Ancora una volta, questo teatro nauseante, prevedibile e interminabile ci ricorda che l’Italia non ha mai creato un proprio rituale laico per le successioni dinastiche e gli avvicendamenti istituzionali. Non siamo la Francia monarchica del celebre annuncio della continuità del potere oltre la vita del suo detentore – “Le roi est mort, vive le Roi!” – né abbiamo mai neppure sfiorato l’asciutta serietà dei riti anglosassoni.

Qui da noi la retorica incontrollata dell’innalzamento del vincitore ha il suo risvolto nell’oscena esecrazione del perdente. Oggi ci godiamo una beatificazione fatta secondo il rito rapido e tumultuario delle promozioni sul campo, del “santo subito” che con papa Wojtyla ha travolto nella Chiesa di Roma le cautelose severissime regole varate secoli fa. Ora, non è tanto il personaggio del nuovo Presidente che è in questione. Di lui si tratterà di vedere in che modo riuscirà a tradurre nel corso di un settennato il programma del suo discorso al Parlamento.

Un discorso breve ma con spunti singificativi; anche di nobili accenti capaci di parlare al cuore migliore del Paese, come l’ammonimento nel nome di Stefano Taché ai tanti che in Italia alimentano l’intolleranza fascistoide e razzista del leghismo. Da oggi in poi vedremo come riuscirà a conciliare l’esigenza di “confermare il patto costituzionale” e i diritti fondamentali e la pari dignità che quel patto garantisce a tutti i cittadini con le riforme istituzionali portate avanti dal presente governo che di quella Costituzione stravolgono l’assetto.

E poi: ci sarà nei fatti quella dichiarata continuità col presidente Napolitano per quanto riguarda l’approvazione della nuova legge elettorale? Non dimentichiamo che Mattarella come giudice costituzionale ha contribuito a eliminare il Porcellum, con la motivazione che quella legge impediva agli elettori di scegliere davvero i rappresentanti.

E prendiamo sul serio le dichiarazioni in materia di corruzione e di obbligo di correttezza fiscale da parte dei cittadini anche se dispiace vedere risorgere il pregiudicato Berlusconi nelle vesti di invitato d’onore ai riti festivi. Ma intanto gioiamo tutti al miracolo della prima conversione operata dal nuovo santo: un Pdr ieri lacerato da contrasti profondi e sull’orlo della scissione oggi appare magicamente, impudentemente unito in un abbraccio concorde e pronto ad affrontare una ancor lunga e ben compensata convivenza nel Palazzo. E’ proprio vero quello che scriveva l’Ariosto: «Fu il vincer sempre mai laudabil cosa».