L’invenzione della madre, esordio di Marco Peano (Minimum Fax) racconta l’agonia e morte per cancro di una donna – impiegata all’ufficio postale di un paesino, amante di Aznavour e delle moto – e soprattutto l’esperienza che riesce a farne il figlio Mattia, di scoperta di un nuovo senso della realtà (più romanzo di formazione che «storia d’amore» come recita il risvolto).
Il libro può suscitare sentimenti opposti. Da una parte ammirazione per la radicalità con cui l’autore tratta frontalmente il tragico (malattia, sofferenza, morte), solitamente espulso dalla cultura di massa. In ciò confermando la vocazione più autentica della letteratura. Dall’altra però, leggendolo non dimentichi mai che si tratta di letteratura: lo stile cerca platealmente – l’effetto, e sembra uscito dalle più sofisticate scuole di scrittura. Quella “esattezza” con cui i raggi del sole colpiscono il volto della madre è una parola più ammiccante che esatta.
La considerazione che il gerundio («Sto girando un film…») si contraddice (mica lo sto girando in quel momento lì) ed è un verbo «in cui passa la vita, in mezzo alle azioni soffia l’alito delle cose che accadono», nasconde l’ansia di essere inesorabilmente poetici. Come uno studiato alternarsi di dettagli iperrealistici, quasi splatter (il lettore partecipa ad una meticolosa autopsia) e frammenti liricheggianti. L’invenzione della madre sembra avvitarsi proprio nella ricerca di una lingua – non convenzionale e neanche “spettacolare” – per dire oggi il tragico.
Tentativo comunque lodevole. Né mancano pagine intense, là dove il dolore umano viene aggirato metaforicamente: le lumache di mare nel sacchetto in cucina che al mattino si risvegliano («tante minuscole agonie»). Alla fine Mattia scopre che la realtà non sta nelle immagini come ha sempre creduto, ma nelle parole. Giusto. Ma non interamente nelle parole. Qualsiasi scrittura dovrebbe accettare il proprio limite, e sporgersi su una alterità delle cose non del tutto formalizzabile.