Del libro di Giuseppe Civati Il trasformista (Indiana) non amo l’uso decorativo della letteratura. (Possibile che occorra appellarsi a Musil e Borges, autori fondamentali ma estranei a qualsiasi “narrazione” anche vagamente progressista, per dire che ci sono sempre altri modi possibili di agire?), non amo gli ammiccamenti e le citazioni chic.
Né contrapporrei, come fa Bartezzaghi nella prefazione, passione e ragione. La sinistra riformista, benché ispirata da una visione razionale, deve anche saper riscaldare i cuori attraverso miti “buoni” (Kennedy riuscì a rendere affascinante una cosa noiosa come la democrazia).
Però il libro individua un problema reale: l’inesorabile riproporsi della figura del trasformista nella nostra politica. Che deriva da una tradizione retorica tutta italiana: l’uso deresponsabilizzato della parola. All’inizio di Nell’intimità di Kureishi il protagonista, che si accinge a lasciare la moglie i due figli, scrive una lettera, sapendo di dover fare attenzione alle parole che usa.
Per la ragione che «le parole sono azioni e fanno accadere le cose» e una volta uscite non possiamo più ricacciarle dentro. Ma gli italiani ne sono specialisti! L’abitudine a smentire, la civetteria del contraddirsi platealmente (strizzando l’occhio), l’invito a non prendere mai nulla alla lettera, rende tutto reversibile, evocabile e dunque destituito di senso.
Il celebre «stai sereno» di Renzi, poi contraddetto, tendenzialmente vanifica ogni patto, dissolve quel giuramento che fonda la convivenza civile. Solo che la replica a tutto questo non è una conferma ideologica identitaria. Invece è accettare entro certi limiti l’incoerenza, lo scarto (“fisiologico”) tra principi e comportamento, però non assumendo euforicamente come obiettivo l’incoerenza.
Infine: ogni politico vuole soprattutto “vincere”, e così tende a manipolare le parole a tale fine. Con questo libro Civati si impegna ad avere una concezione della politica capace di abbracciare anche le ragioni dell’etica.