La paura che la propria vena creativa potesse esaurirsi, l’attrazione verso culture lontane, (anche se percepite attraverso la lente deformante dell’esotismo) e poi la ricerca di temi visionari, di tonalità calde e di una luce nuova spinsero il pittore Paul Gauguin ad abbandonare la Francia per trasferirsi prima a Tahiti e in seguito, dal 1901, nelle isole marchesi.
Il frutto di quella scelta radicale furono marine abbaglianti, paesaggi rigogliosi e soprattutto una seducente serie di nudi di fanciulle in fiore, incontrate in poveri villaggi di pescatori. Come racconta la mostra monografica che la Fondation Beyeler di Basilea dedica, fino al 28 giugno, all’artista francese. Un’esposizione che ai dipinti del periodo bretone affianca opere realizzate a Tahiti, in cui appare la quotidianità idealizzata delle comunità indigene attraverso la raffigurazione di giovani corpi dai colori ambrati e dall’evidenza plastica, quasi scultorea, nonostante siano rigidamente bidimensionali.
Ma se la ricerca di una pittura sintetica affidata soprattutto alla forza del colore caratterizzava già la pittura di Gauguin fin dai tempi di Pont Aven, la passione per le stampe giapponesi, condivisa con Van Gogh, gli permise di arrivare a un’originale definizione dei contorni realizzati con il solo colore. La seduzione delle stampe orientali incontrava così la forza dei primitivi francesi che Gauguin studiò assiduamente in Britannia, come testimonia Paul Sérusier nel libro I segreti della pittura, scritto dopo la fine dell’esperienza di Pont Aven e che ci permette di sapere come lo sfuggente Gauguin veniva percepito dai giovani artisti che fecero di lui un maestro, per superare definitivamente l’impressionismo e poter poi prendere la strada di una ricerca visionaria e intimista, come quella del movimento Nabis. Castelvecchi ha di recente riproposto in edizione italiana il saggio di Sérusier. E ancor più utilmente ha pubblicato il testo-testamento che Gauguin scrisse nel 1902, quando ormai l’aggravarsi di problemi alle gambe e l’assenza di risorse finanziarie per un viaggio a Parigi avevano reso impossibile ogni eventuale progetto di ritorno in Europa.
Lucidamente Gauguin pensò di approfittare dell’aura di mistero che ormai circondava lui e la sua opera e si mise a scrivere un libro, Avant et aprés, come autoritratto per i posteri. Ma da quelle 241 pagine, pubblicate da Castelvecchi con il titolo Prima e Dopo, non emerge solo ciò che Gauguin avrebbe voluto tramandare di sé. Accanto alla rivendicazione di un animus selvaggio e ai discorsi in difesa degli indigeni vittime del pregiudizio occidentale e del colonialismo, emergono in filigrana i nodi affettivi irrisolti e il modo cinico e paternalistico con cui ricordava Van Gogh, con il quale aveva condiviso burrascosamente la casa di Arles. Una “amicizia” che questo «non libro», indirettamente, suggerisce di tornare ad esplorare.
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