Quando incontrò Yves Klein già da tempo Lucio Fontana faceva arte con i tagli che si espandono come onde nella carne viva della tela. Usando i buchi e poi il neon per aprire l’opera alla quarta dimensione, a una spazialità ulteriore, che significava soprattutto allargare il proprio spazio interiore. Sperimentando a tutto raggio fra ceramica, disegno e scultura polimaterica.
Per questo Fontana era forse uno dei pochi che in quell’ultimo scorcio degli anni 50 poteva intuire ciò che quel giovane francese approdato a Milano una sera del 1957 con un carico di tele blu oltremare cercava di fare ricorrendo al monocromo, stendendo lunghi tappeti di puro pigmento, facendo in modo che lo spettatore attraversandoli avesse la sensazione di entrare in una nuova dimensione.
A modo suo il giovanissimo Yves Klein cercava attraverso l’astrattismo una nuova spazialità che non fosse solo fisica. E anche se quella sua prima mostra alla Galleria Apollinaire di Brera, nel 1957, rimase pressoché deserta, trovò l’attenzione di un coraggioso maestro come Fontana che negli anni non aveva mai smesso di cercare strade per uscire dalla realtà monodimensionale della tela.
Lui, artista già maturo, che per mantenersi collaborava con architetti e faceva ceramica, non aveva voluto mai rinunciare alla propria ricerca “spazialista”, dopo aver intuito «che l’arte non era più da fare col pennello come nella pittura a dimensione di quadro o di affresco». Come racconta la bella mostra milanese Klein Fontana Milano Parigi 1957- 1962 che si può ancora vedere questo fine settimana nel Museo del Novecento a Milano (e come si legge nei saggi dei curatori Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti pubblicati nel catalogo Electa) i due artisti, pur essendo molto diversi per età, formazione e poetica, avevano ben compreso che l’arte aveva del tutto cambiato dimensione.
«Non le dimensioni di primo, secondo, terzo piano. Ma dimensione come volume di idee», come scrisse Fontana in un articolo apparso su Domus, in cui accusava Pollock di essersi fermato al post impressionismo, riconoscendo a Boccioni ai Cubisti e, soprattutto, a Manzoni di aver “scoperto” la “linea” e la sua corsa verso l’infinito mentre rivendicava per sé il coraggio di una ricerca sulla «dimensione incognita». «Queste in fondo sono le mie idee ma non le hanno mai capite» scriveva smagato. «L’unico che ha capito il problema dello spazio – aggiungeva – è Klein, con la dimensione blu; quello è veramente astratto, è uno dei giovani che ha contato. E poi Manzoni con la “linea”… Ecco, la “linea” di Manzoni non è stata ancora raggiunta, la si capirà tra cento anni!».
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