Ha un titolo bellissimo il saggio di Noa Moll L’infinito sotto casa (Patròn), su letteratura e transculturalità nell’Italia contemporanea, che riannoda la recente narrativa migrante ai Marinetti e Ungaretti nati in Egitto e ai libri di viaggio di Gozzano e De Amicis. Ridisegna la storiografia letteraria del secolo scorso, sapendo che oggi più che mai abbiamo il mondo sotto (e dentro) casa, anche se non ne siamo pienamente consapevoli. Le mie obiezioni riguardano invece alcuni aspetti specifici. Anzitutto: si dichiara enfaticamente una poetica dialogica e della diaspora e si propone una idea di letteratura italiana come laboratorio transmediale. Bene ma non si rischia qui un po’ di nobile retorica del Dialogo e dell’Ascolto?
La nostra letteratura mi sembra caratterizzata da prodotti molto autoreferenziali, prona al genere unico del noir, pochissimo transculturale, ipnotizzata da formule di marketing come il New Italian Epic di Wu Ming, mentre in Rete prevalgono logiche autopromozionali, dove nessuno intende “ascoltare” (lo sguardo dell’autrice, sempre rigoroso, qui si fa un po’ acritico). E poi: discorrendo di scrittori viaggiatori stende l’elogio di Celati perché azzera tutti i clichè. Va bene, però siamo fatti anche dei nostri cliché (non esiste un punto di vista asettico), e proprio Moravia in Africa prende le mosse da stereotipi e apparenti ovvietà per poi darci alcune verità abbaglianti su quei paesi.
Particolarmente felice il ritratto di Amelia Rosselli, che ha voluto coltivare l’“irregolare” (lapsus, calembour, sgrammaticature), sempre un po’ straniera anche nella sua lingua madre (qui si accosta a Sanguineti, eppure lei ha solo costeggiato la neoavanguardia e alla falsa comunicazione ha sempre contrapposto una comunicazione più intensa). Ma forse le pagine più interessanti del saggio, da infliggere per punizione a leghisti e cultori delle radici, sono quelle dedicate a Pavese, per il quale la centralità della condizione umana è la non appartenenza.