Non ci sono statue. «Niente è statua. Noi siamo degli scherzi di luce. Tutto ha la propria luce». In poche infuocate battute Medardo Rosso (1858-1928) nel suo studio parigino raccontava così la propria ricerca a un giornalista.
Era il 1917 e ancora andava di moda il possente ed eroico romanticismo alla Rodin. I due si erano incontrati la prima volta 1893 e non si erano piaciuti, nonostante il comune rifiuto della tradizione accademica. Scultore ribelle e anti retorico, Rosso lavorava sulla dissoluzione dei contorni, cercando con superfici scabre, solo in alcuni punti levigate, un effetto analogo allo sfumato leonardiano. E a chi gli riproponeva la statuaria antica come insuperato modello di perfezione non esitava a rispondere: «I Greci? Passacarte dell’età antica. Non li abbiamo serviti abbastanza?».
Allontanandosi sempre più dalla scultura intesa come riproduzione della realtà oggettiva, annotava nei suoi taccuini: «Lo scultore deve soprattutto far dimenticare la materia». Tutta l’opera di Rosso nasce nel tentativo di cogliere l’attimo, il sorriso di un bambino, l’espressione fugace di una donna, uno stato d’animo intravisto in persone sconosciute. Cercando di fondere fisico e psichico nella rappresentazione di un volto.
Come ricostruisce la mostra Medardo Rosso luce e materia curata da Paola Zatti e aperta fino al 31 maggio nella Galleria d’Arte Moderna di Milano. Ben presto si lascia alle spalle prove dal sapore aneddotico come il Birichino (1882), come la Portinaia o il goliardico ritratto di un avvinazzato Sagrestano (1883) che incontriamo nelle prime sale insieme alla vecchia Ruffiana; opere in cui si può leggere una eco della pittura scapigliata di tema sociale. Che svanisce con il trasferimento a Parigi nel 1889. È l’inizio di una fase post impressionista con una modellazione fluida improntata ad un forte pittoricismo. Fino ad arrivare a sculture innovative come Enfant malade e L’enfant juif, in gesso e bronzo. E alla misteriosa Madame X (1896), dove ogni intento ritrattistico è del tutto superato.
Il naso lungo e le orbite appena affiorano alla superficie. Il volto è suggerito da un ovale perfetto che evoca i reperti cicladici e al tempo stesso sembra anticipare Modigliani e Brancusi, come suggerisce Omar Cucciniello nel catalogo edito da 24 Ore Cultura. La forma ridotta all’essenziale e l’effetto di non finito toccano lo zenit in Ecce puer (1906), il capolavoro di Rosso con cui si chiude la mostra. E che negli anni successivi lo scultore torinese cercò incessantemente di ricreare anche attraverso un uso innovativo e artistico della fotografia.
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