La luce che fende la scena, svela la nuda realtà in un drammatico chiaroscuro, quasi caravaggesco. un lampo fulmineo fa emergere uno spoglio basso napoletano, bambini scalzi, vestiti di stracci, attaccati alle gambe di una madre giovanissima, dallo sguardo altero che sfida l’obiettivo. Bellezza amara. Una vecchia posa per un ritratto con in mano la foto incorniciata di quando era giovane. L’ingiustizia del tempo sul volto di una donna. Un ragazzino controvento cerca di vendere sigarette di contrabbando. Un bimbo con un vassoio di caffè, più grande di lui. Un dolore profondo si legge negli occhi di questi ragazzini costretti a crescere troppo in fretta.
Mimmo Jodice, il maestro della fotografia a cui si deve questa straordinaria narrazione per immagini di una Napoli che non c’è più, era uno di loro. Nato nel 1934 nel quartiere Sanità, dopo la morte di suo padre quando lui aveva 5 anni, fu costretto a cercare un modo per sopravvivere in una città difficile e complessa di cui coglie immediatamente i problemi. L’ampia, emozionante, retrospettiva che Electa gli dedica al Madre dal titolo Attesa. 1960-2016 (fino al 24 ottobre 2016) ben racconta il percorso che, a partire da quella realtà drammatica ma piena di vita, lo ha portato poi a sviluppare raffinate meditazioni sugli infiniti orizzonti che si aprono sul mare e sulle tracce delle civiltà antiche – da Pompei a Palmira – ma soprattutto a lavorare sull’immagine femminile, ritraendo il volto di Angela (luccicante di stelle dietro il cellophane in una foto degli anni 60) musa, compagna di vita e collaboratrice per poi approdare a progetti sperimentali sul nudo in movimento tracciando linee come in un dripping alla Pollock, in sequenze fotografiche che sembrano pitture astratte. La scelta di Jodice di usare quasi esclusivamente il bianco nero ha che fare con il disegno: la sua prima passione da ragazzino, dettata da una esigenza espressiva profonda non tanto dal fatto che carta e matita cinquant’anni fa erano per lui certamente più a portata di mano di una costosa attrezzatura. A questo gusto del disegnare, di creare immagini che non sono la piatta riproduzione della realtà, Jodice non ha mai rinunciato neanche quando negli anni dell’impegno politico si tuffò nella fotografia sociale. Non occupandosi di fatti di cronaca, ma della vita delle classi più povere e dei lavoratori, sempre cercando la qualità formale, riequilibrando le luci in camera oscura, cercando per “arte del levare” un’armonia compositiva che potenzia il contenuto, come nel caso della celebre foto del ragazzino con la maglia a righe che si staglia, espressivo e potente, su un gioco rovesciato di luci e ombre. Una attenzione alla costruzione dell’immagine che ritroviamo fortissima in tutto il progetto dedicato alla fabbrica in cui spiccano gli scatti di Bagnoli e all’Italsider. L’impegno nel mettere la fotografia al servizio della “causa” va di pari passo con lo sviluppo di una originale poetica, con la progressiva definizione di una identità stilistica, che nell’orizzonte tetro e poderoso delle acciaierie produce folgoranti silhouettes di operai da cui si irradia la fontana di luce che promana dalla saldatrice. La lotta contro l’ingiustizia e le disuguaglianze sociali, la dignità del lavoro, le battaglie delle donne sono al centro della sua ricerca negli anni 70, quando va in piazza a documentare oceaniche manifestazioni, per i diritti di tutti. Avvertendo una propria responsabilità di artista, senza scadere mai nella propaganda. Anche in questo caso non usa la fotografia per fare copie della realtà, ma per realizzare immagini che esprimono un pensiero su quella realtà, andando oltre la superficie delle cose. Come raccontano le spettacolari sequenze montate da Francesco Jodice (figlio di Mimmo e a sua volta fotografo di talento, a cui Camera ora dedica una personale) che scorrono su grande schermo a pianterreno del Museo, nella sala che il direttore e curatore Andrea Viliani ha pensato come un’agorà aperto alla città.
Qui esplodono i fuochi d’artificio delle affollate feste popolari anni 60 e 70 , c’è il bambino che cammina sul filo sospeso a mezz’aria sotto migliaia di occhi accalcati su minuscoli terrazzi ma ecco anche i rituali di una religiosità popolare, in cui si mescolano magia e superstizione. Senza tacere sul fondo di violenza che vi si legge in filigrana: gli incappucciati della processione per San Gennaro sono identici a quelli del Ku Klux Klan. L’ambiguità dell’immagine, la sua polisemia, è uno degli aspetti che Jodice più coltiva. Insieme all’ironia, che diventa guizzo vitale in foto come quella di una famiglia in un interno senza mobili, sul muro sporco c’è scritto “felice anno”.
In questi ritratti dalla forte impronta teatrale si ritrova l’umanità rappresentata da Caravaggio e da Ribera, sembra di rivederne le espressioni e perfino certe “arie” da ceffo. L’attenzione di Jodice verso la pittura napoletana del ‘600 è raccontata nell’ampio svolgimento della mostra al terzo piano da una splendida natura morta dello stesso Ribera, un genere che negli anni più recenti il fotografo napoletano ha reinventato in termini moderni, “documentando” in modo visionario il centro storico preda di un consumismo che produce effetti di soffocante horror vacui. Questo immane accumulo di merci sembra vivere di vita propria, producendo un senso di palpabile straniamento; così come enigmatiche e sottilmente inquietanti appaiono le Vedute di Napoli realizzate negli anni 80, che nelle bianche sale del Madre scorrono intervallate da tele di Morandi e di De Chirico (La grande torre, 1932-38). Dopo gli anni di impegno civile, Jodice cercò un modo per esprimere la delusione perché nulla era cambiato, lo sconforto per non essere riusciti a sconfiggere le disuguaglianze. «Non era successo niente. Ci eravamo illusi», ha raccontato lui stesso. Nacque così l’idea di fotografare una Napoli deserta, senza persone, azzerando la riconoscibilità dei luoghi, facendo emergere una dimensione irreale, sospesa fra realtà e immaginazione: un colonna fasciata, che non siamo certi ci sia davvero sotto la stoffa. Un cortile con un capitello romano, attraversato da un filo con mollette, ma i panni non ci sono più. Macchine prese da dietro, con i vetri oscurati. Finestre che non si aprono, architetture cieche. Intonaci sbrecciati rivelano balconi finti, solo disegnati. Due rampe di scale, ma entrambe scendono e nessuna sale. Tutto concorre a rappresentare una sinistra dimensione di vuoto, di sconfitta, di speranze tradite. Qui come in altri progetti è una visione di Napoli smitizzante ma anche struggente e poetica, quella che il fotografo ci offre, con luoghi antichi congelati dalla polvere accanto alle nuove aggressioni urbane di una tangenziale o di un viadotto che sfregiano il panorama. Con i suoi modi riservati Mimmo Jodice ha lanciato un allarme per Napoli anche due anni fa in occasione dei festeggiamenti per i suoi 80 anni, esprimendo preoccupazione per il degrado della città. Denunciando lo stato in cui versano Santa Chiara, la posta centrale, il centro storico. Da Napoli non è mai voluto andar via, neanche quando trasferirsi a New York avrebbe accelerato la sua carriera o quando Parigi lo celebrava. «Non me la sono sentita – ripete spesso -. Napoli mi ha dato i temi della mia ricerca, il mare, la memoria, l’archeologia». Fin da ragazzino ha sempre avuto una passione per la città sotterranea, per Pompei, per le tracce del passato. Iniziando negli anni 60 un viaggio nell’antico che continua ancora oggi, cercando di ricreare vedute senza tempo, le stesse che hanno visto i viaggiatori tanti secoli fa. La linea dell’orizzonte governa quasi sempre l’immagine. È nata così la serie Eden come ricorda Germano Celant in Fotografia maledetta e non (Feltrinelli). Paesaggi in cui aleggia un senso di attesa, che invitano a perdersi a guardare.
Mimmo Jodice non cerca la bellezza, ma l’intensità. I suoi atleti della villa del papiro ad Ercolano riproposti al Madre non vogliono essere belle sculture, ma presenze vive, magnetiche. Senza nostalgie romantiche per le rovine, semmai drammaticamente presenti, interroganti, come le foto di statue dal volto sfregiato, fratturato, o addirittura abraso che evocano i drammatici calchi pompeiani come a ridar voce a quelle persone arse vive o soffocate dalla lava. La mostra curata da Andrea Viliani permette cogliere la genesi di questi progetti, ne esplicita le fonti, inserendo nel percorso espositivo alcune opere selezionate con l’artista stesso: in particolare due testimonianze dell’archeologia mediterranea, la scultura in marmo bianco del Compagno di Ulisse e il busto in bronzo di Artemide che rimandano a un ideale Museo del mare nostrum. Qui la fotografia intesa come linguaggio colto dispiega tutte le sue possibilità. E anche sotto questo riguardo Mimmo Jodice è stato un anticipatore. Facendo incontrare fotografia e arte, con progetti sperimentali come la serie di foto strappate: ritraggono addensati paesaggi rurali calabresi percorsi verticalmente da una crepa che ne interrompe l’immobilità. Tagli a vivo, sulla immagine stampata, che evocano i tagli di Fontana, le drammatiche fratture alla Burri, che squarciano l’ordinario. Oppure all’apposto viene colpito dal Cretto di Burri nella Gibellina ferita dal terremoto, cerca il gesto dell’artista che si oppone alla distruzione. Così anche Torre del Greco o gli angoli più degradati di Napoli diventano luoghi senza tempo che rimandano alla pittura e diventano emblemi di un universale discorso sull’uomo.
Gallery a cura di Monica Di Brigida