Dopo una potente trilogia dal sapore epico, ambientata nell’Islanda di cento anni fa e che aveva come protagonista un ragazzo senza nome, amante della poesia (inesperto di tutto eppure dotato di una saggezza profonda), lo scrittore e poeta Jón Kalman Stefánsson torna con un nuovo romanzo dal titolo Grande come l’universo (Iperborea, traduzione di Silvia Cosimini). Ancora una volta un libro forte e avvolgente come la corrente del mare, dall’andamento musicale, profondo nel raccontare il mondo interiore dei personaggi. Ma questa volta anche politico. Insieme al precedente I pesci non hanno gambe (2015), infatti, accompagna il lettore in un viaggio dagli anni 60 a oggi, ambientato a Reykjavík e a Klefavìk, «strana e remota cittadina con poche migliaia di abitanti» oppressa dalla presenza di basi militari Usa e dalla disoccupazione; «porto vuoto» dove «nelle mattine serene il sole è una palla di fuoco che prende forma oltre le montagne, come se qualcosa di grande stesse salendo dal profondo», si legge nel preludio. L’Islanda è sempre stata l’isola degli elfi e delle fate nel nostro immaginario. Delle saghe e della grande letteratura. Il Paese della natura selvaggia dove vive una società pacifica e solidale. Un equilibrio silenzioso, qualche anno fa, rotto da un gigantesco crack bancario. E ora anche dalla voce dell’opinione pubblica che ha cominciato a farsi sentire con più determinazione. Costringendo tre mesi fa il primo ministro Gunnlaugsson a dimettersi. Dopo le rivelazioni dei Panama papers che hanno messo in luce il suo conflitto di interessi (una società off shore legata a lui aveva contratto un grosso credito nei confronti di tre banche). Rompendo il loro proverbiale riserbo, gli islandesi si sono liberati di un premier corrotto? Sì ci siamo liberati del primo ministro che si è dimesso. Anche se è ancora alla guida del suo partito e siede in Parlamento. Intanto il ministro delle Finanze, il conservatore Benediktsson, segretario dell’Independence Party, benché il suo nome compaia nei Panama papers, se ne sta attaccato alla poltrona. Va detto però che il governo è stato costretto ad anticipare le elezioni all’autunno. Com’è la situazione oggi? L’economia regge nonostante siano passati pochi anni dal default bancario. Anzi, direi che va molto bene. Anche grazie al turismo che è molto cresciuto. Si dice che il Partito pirata che alle ultime elezioni ha preso il 6 per cento, alle prossime, possa andare oltre il 30 per cento. Chissà che cosa potrà succedere! La situazione generale è buona, in Islanda c’è un alto tenore di vita, una società moderna, anche se avanzano aspetti preoccupanti: gli ospedali pubblici sono in crisi e aumentano le privatizzazioni. I proprietari delle grandi fabbriche ittiche fanno enormi profitti e si mettono in tasca i soldi senza investire. Acquistano i mezzi di comunicazione per controllarli e restituiscono sempre meno alla società. A parte questo... siamo felici come fringuelli. Anche Ari, l’editore e poeta protagonista di Grande come l’universo attraversa un periodo di crisi, tradisce la sua compagna, spreca il suo talento. Alla fine, però, scopriamo che la crisi può essere un’opportunità di cambiamento? Tradisce la moglie, sì e no. Penso che piuttosto tradisca se stesso. La sua vita è in un vicolo cieco. In gran parte perché ha smarrito i suoi sogni o meglio non ha più cercato di seguirli. Al culmine di tutto questo si accorge di amare due donne. Scopre che non si può obbligare il cuore. Non puoi comandare i sentimenti e gli affetti come si fa con un cane. È impossibile vivere senza prendere posizione, senza fare scelte. Per anni è fuggito da se stesso, lasciando che i giorni scorressero via. Tradendo le proprie aspirazioni, la propria vita. Nel profondo di sé sa di aver cercato di ingabbiarla. Si è limitato a gestire le situazioni per anni e quando lo incontriamo all’inizio del romanzo rischia di implodere. Ma forse è fortunato, perché tante persone passano la vita a controllare le cose razionalmente per poi morire da vecchi con i loro sogni... Sì, penso che nella crisi ci sia anche una possibilità di cambiamento. A volte è meglio che la situazione esploda così si è obbligati a ricostruire tutto ex novo, piuttosto che accontentarsi di una vita al minimo. «La cosa più dolorosa deve essere non aver amato amato abbastanza», dice Ari nel finale de I pesci non hanno gambe che con questo romanzo forma un dittico. Due romanzi che sembrano avere qualcosa di autobiografico nel ripercorre l’ultimo cinquantennio di storia islandese. Un’impressione sbagliata? Capita di usare aspetti della propria vita, spesso qualcosa che riguarda l’atmosfera. Lo si fa senza accorgersene. Ma il bello della letteratura è che puoi utilizzare aspetti della vita “vera” per trasformarli in qualcosa di completamente diverso. E alla fine la questione cruciale non è tanto se il romanzo è autobiografico o meno, ma se funziona, se ha una sua autonomia e universalità, se emoziona, se ha un senso... Lo spirito ribelle di Margrét che impara da uno sconosciuto a leggere le stelle e poi la zia Veiga che nonostante la guerra, si lascia andare alla passione; come sempre nei suoi romanzi i personaggi femminili sono particolarmente affascinanti, come è riuscito a dar loro voce? Non l’ho cercata coscientemente. Sono parte di me; la loro voce emerge quando scrivo. E poi è più interessante scrivere di donne perché, oppresse per migliaia di anni, sono state costrette a guardare il mondo da un punto di vista differente rispetto a quello dei potenti che hanno scritto la storia ufficiale, la storia della religione, che hanno dettato la cronaca. La voce della donna è diversa, per questo mi attrae come uomo, come poeta e scrittore. Perché storicamente è stato più difficile per le donne affermarsi come scrittrici? Perché, come accennavo, gli uomini hanno “scritto il mondo”. Anche Dio è uscito da una penna maschile. La maggior parte della letteratura classica è maschile. La Bibbia è stata redatta nella forma che conosciamo dagli uomini e la donna è stata tagliata fuori. Il modo di pensare che esprime è maschile. Scrittrici come Virginia Woolf o Jean Rhys hanno dovuto trovare un nuovo modo per esprimersi, un modo personale per utilizzare questo strumento maschile, il linguaggio. Jean Rhys, per esempio, ha scritto romanzi di grande interesse intorno al 1930. Come Buongiorno, mezzanotte (il titolo è ispirato ad Emily Dickinson) in cui racconta la vita di un barfly a Parigi; ma ci vollero almeno 30 anni perché fosse notato, perché era insolito vedere una donna in quel ruolo ed esprimersi in quel modo. Andava contro corrente. Era troppo... strano. Questo ci dice quanto le nostre menti e il nostro modo di percepire siano improntate al solito modo di pensare tradizionale. Nei suoi libri lei fonde poesia e prosa cercando di restituire una visione più profonda della realtà e l’invisibile dei rapporti umani. Quanto conta per lei la ricerca di un linguaggio diverso da quello razionale della “veglia”? La ricerca di una dimensione irrazionale per me è molto importante. Come scrittore, poeta e come persona. Da bambino ero sempre molto sorpreso nel vedere le persone indossare maschere seriose. Mi colpiva che tutto fosse plasmato da rituali, da abitudini; come se le persone credessero di sapere esattamente come il mondo avrebbe dovuto essere,; come se nella loro mente non fosse mai sorto il dubbio che la realtà possa essere diversa da come la si vede ogni giorno sui media. La realtà era solo quella per loro e tutti i loro schemi mentali lo confermavano. Io invece volevo sapere... perché la sinistra si chiama sinistra, perché il blu non si può chiamare giallo, perché (erano gli anni Sessanta) quasi tutte le donne stavano a casa, mentre gli uomini lavoravano. Perché i maschi avevano sempre l’ultima parola e comandavano su tutto? Quella mi sembrava la cosa più strana, perché avevo notato che gli uomini intorno a me non erano in alcun modo superiori, più saggi, più forti, o migliori delle donne. Erano forse più sicuri di se stessi, ma questo per me era ancora più incomprensibile, dal momento che non mi sembrava che avessero molti motivi per esserlo. Ancora oggi sto cercando di scoprire perché la sinistra si chiama sinistra, perché il blu non è giallo, perché gli uomini governano il mondo... L’importanza della letteratura, se vogliamo, è proprio questa: può farci vedere che la realtà in cui viviamo è governata da regole molto stupide e che la cultura in cui siamo immersi è fatta di credenze e gretti rituali. Se il nostro mondo è travagliato, malato e pieno di violenza bisogna cercare lì le cause.

Dopo una potente trilogia dal sapore epico, ambientata nell’Islanda di cento anni fa e che aveva come protagonista un ragazzo senza nome, amante della poesia (inesperto di tutto eppure dotato di una saggezza profonda), lo scrittore e poeta Jón Kalman Stefánsson torna con un nuovo romanzo dal titolo Grande come l’universo (Iperborea, traduzione di Silvia Cosimini). Ancora una volta un libro forte e avvolgente come la corrente del mare, dall’andamento musicale, profondo nel raccontare il mondo interiore dei personaggi. Ma questa volta anche politico. Insieme al precedente I pesci non hanno gambe (2015), infatti, accompagna il lettore in un viaggio dagli anni 60 a oggi, ambientato a Reykjavík e a Klefavìk, «strana e remota cittadina con poche migliaia di abitanti» oppressa dalla presenza di basi militari Usa e dalla disoccupazione; «porto vuoto» dove «nelle mattine serene il sole è una palla di fuoco che prende forma oltre le montagne, come se qualcosa di grande stesse salendo dal profondo», si legge nel preludio.
L’Islanda è sempre stata l’isola degli elfi e delle fate nel nostro immaginario. Delle saghe e della grande letteratura. Il Paese della natura selvaggia dove vive una società pacifica e solidale. Un equilibrio silenzioso, qualche anno fa, rotto da un gigantesco crack bancario. E ora anche dalla voce dell’opinione pubblica che ha cominciato a farsi sentire con più determinazione. Costringendo tre mesi fa il primo ministro Gunnlaugsson a dimettersi. Dopo le rivelazioni dei Panama papers che hanno messo in luce il suo conflitto di interessi (una società off shore legata a lui aveva contratto un grosso credito nei confronti di tre banche).
Rompendo il loro proverbiale riserbo, gli islandesi si sono liberati di un premier corrotto?
Sì ci siamo liberati del primo ministro che si è dimesso. Anche se è ancora alla guida del suo partito e siede in Parlamento. Intanto il ministro delle Finanze, il conservatore Benediktsson, segretario dell’Independence Party, benché il suo nome compaia nei Panama papers, se ne sta attaccato alla poltrona. Va detto però che il governo è stato costretto ad anticipare le elezioni all’autunno.
Com’è la situazione oggi?
L’economia regge nonostante siano passati pochi anni dal default bancario. Anzi, direi che va molto bene. Anche grazie al turismo che è molto cresciuto. Si dice che il Partito pirata che alle ultime elezioni ha preso il 6 per cento, alle prossime, possa andare oltre il 30 per cento. Chissà che cosa potrà succedere! La situazione generale è buona, in Islanda c’è un alto tenore di vita, una società moderna, anche se avanzano aspetti preoccupanti: gli ospedali pubblici sono in crisi e aumentano le privatizzazioni. I proprietari delle grandi fabbriche ittiche fanno enormi profitti e si mettono in tasca i soldi senza investire. Acquistano i mezzi di comunicazione per controllarli e restituiscono sempre meno alla società. A parte questo… siamo felici come fringuelli.
Anche Ari, l’editore e poeta protagonista di Grande come l’universo attraversa un periodo di crisi, tradisce la sua compagna, spreca il suo talento. Alla fine, però, scopriamo che la crisi può essere un’opportunità di cambiamento?
Tradisce la moglie, sì e no. Penso che piuttosto tradisca se stesso. La sua vita è in un vicolo cieco. In gran parte perché ha smarrito i suoi sogni o meglio non ha più cercato di seguirli. Al culmine di tutto questo si accorge di amare due donne. Scopre che non si può obbligare il cuore. Non puoi comandare i sentimenti e gli affetti come si fa con un cane. È impossibile vivere senza prendere posizione, senza fare scelte. Per anni è fuggito da se stesso, lasciando che i giorni scorressero via. Tradendo le proprie aspirazioni, la propria vita. Nel profondo di sé sa di aver cercato di ingabbiarla. Si è limitato a gestire le situazioni per anni e quando lo incontriamo all’inizio del romanzo rischia di implodere. Ma forse è fortunato, perché tante persone passano la vita a controllare le cose razionalmente per poi morire da vecchi con i loro sogni… Sì, penso che nella crisi ci sia anche una possibilità di cambiamento. A volte è meglio che la situazione esploda così si è obbligati a ricostruire tutto ex novo, piuttosto che accontentarsi di una vita al minimo.
«La cosa più dolorosa deve essere non aver amato amato abbastanza», dice Ari nel finale de I pesci non hanno gambe che con questo romanzo forma un dittico. Due romanzi che sembrano avere qualcosa di autobiografico nel ripercorre l’ultimo cinquantennio di storia islandese. Un’impressione sbagliata?
Capita di usare aspetti della propria vita, spesso qualcosa che riguarda l’atmosfera. Lo si fa senza accorgersene. Ma il bello della letteratura è che puoi utilizzare aspetti della vita “vera” per trasformarli in qualcosa di completamente diverso. E alla fine la questione cruciale non è tanto se il romanzo è autobiografico o meno, ma se funziona, se ha una sua autonomia e universalità, se emoziona, se ha un senso…
Lo spirito ribelle di Margrét che impara da uno sconosciuto a leggere le stelle e poi la zia Veiga che nonostante la guerra, si lascia andare alla passione; come sempre nei suoi romanzi i personaggi femminili sono particolarmente affascinanti, come è riuscito a dar loro voce?
Non l’ho cercata coscientemente. Sono parte di me; la loro voce emerge quando scrivo. E poi è più interessante scrivere di donne perché, oppresse per migliaia di anni, sono state costrette a guardare il mondo da un punto di vista differente rispetto a quello dei potenti che hanno scritto la storia ufficiale, la storia della religione, che hanno dettato la cronaca. La voce della donna è diversa, per questo mi attrae come uomo, come poeta e scrittore.
Perché storicamente è stato più difficile per le donne affermarsi come scrittrici?
Perché, come accennavo, gli uomini hanno “scritto il mondo”. Anche Dio è uscito da una penna maschile. La maggior parte della letteratura classica è maschile. La Bibbia è stata redatta nella forma che conosciamo dagli uomini e la donna è stata tagliata fuori. Il modo di pensare che esprime è maschile. Scrittrici come Virginia Woolf o Jean Rhys hanno dovuto trovare un nuovo modo per esprimersi, un modo personale per utilizzare questo strumento maschile, il linguaggio. Jean Rhys, per esempio, ha scritto romanzi di grande interesse intorno al 1930. Come Buongiorno, mezzanotte (il titolo è ispirato ad Emily Dickinson) in cui racconta la vita di un barfly a Parigi; ma ci vollero almeno 30 anni perché fosse notato, perché era insolito vedere una donna in quel ruolo ed esprimersi in quel modo. Andava contro corrente. Era troppo… strano. Questo ci dice quanto le nostre menti e il nostro modo di percepire siano improntate al solito modo di pensare tradizionale.

Nei suoi libri lei fonde poesia e prosa cercando di restituire una visione più profonda della realtà e l’invisibile dei rapporti umani. Quanto conta per lei la ricerca di un linguaggio diverso da quello razionale della “veglia”?
La ricerca di una dimensione irrazionale per me è molto importante. Come scrittore, poeta e come persona. Da bambino ero sempre molto sorpreso nel vedere le persone indossare maschere seriose. Mi colpiva che tutto fosse plasmato da rituali, da abitudini; come se le persone credessero di sapere esattamente come il mondo avrebbe dovuto essere,; come se nella loro mente non fosse mai sorto il dubbio che la realtà possa essere diversa da come la si vede ogni giorno sui media. La realtà era solo quella per loro e tutti i loro schemi mentali lo confermavano. Io invece volevo sapere… perché la sinistra si chiama sinistra, perché il blu non si può chiamare giallo, perché (erano gli anni Sessanta) quasi tutte le donne stavano a casa, mentre gli uomini lavoravano. Perché i maschi avevano sempre l’ultima parola e comandavano su tutto? Quella mi sembrava la cosa più strana, perché avevo notato che gli uomini intorno a me non erano in alcun modo superiori, più saggi, più forti, o migliori delle donne. Erano forse più sicuri di se stessi, ma questo per me era ancora più incomprensibile, dal momento che non mi sembrava che avessero molti motivi per esserlo. Ancora oggi sto cercando di scoprire perché la sinistra si chiama sinistra, perché il blu non è giallo, perché gli uomini governano il mondo… L’importanza della letteratura, se vogliamo, è proprio questa: può farci vedere che la realtà in cui viviamo è governata da regole molto stupide e che la cultura in cui siamo immersi è fatta di credenze e gretti rituali. Se il nostro mondo è travagliato, malato e pieno di violenza bisogna cercare lì le cause.