Partiamo dai fatti. Il voto spagnolo ha fermato la sinistra, punito i socialisti, premiato l’usato insicuro, il partito di Rajoy che ha portato il Pil a crescere del 3% ma con una percentuale insopportabile di giovani disoccupati e con disuguaglianze crescenti

Partiamo dai fatti. Il voto spagnolo ha fermato la sinistra, punito i socialisti, premiato l’usato insicuro, il partito di Rajoy che ha portato il Pil a crescere del 3% ma con una percentuale insopportabile di giovani disoccupati e con disuguaglianze crescenti. Hanno vinto i politicanti peggiori, quelli che hanno parlato alla pancia del popolo britannico, promettendo un’improbabile ritorno ai fasti dell’impero, una volta liberatisi dei migranti e dei vincoli europei. Hanno vinto Nigel Farage e Boris Johnson, gente che mette l’orticaria pure ai trader della City.
Non ci sono scorciatoie, né cavalli bianchi che ti portino al sicuro e alla meta. Perciò bisogna essere sinceri (e persino spietati) nell’analisi. Sul voto spagnolo può aver influito l’effetto Brexit. Gli elettori venivano da una legislatura di appena sei mesi, con i partiti che non avevano saputo formare un governo. Dopo la Brexit, presentata dai media con toni apocalittici come la bomba che avrebbe potuto far saltare l’Europa, gli spagnoli non hanno avuto il coraggio di votare Unidos Podemos, cioè ex indignados insieme ad ex comunisti. Pablo Iglesias è stato dunque sfortunato, ma è possibile che abbia anche voluto troppo e in troppo poco tempo. Da movimento di protesta, né di destra né di sinistra, ha trasformato Podemos in partito che mirava al governo e si proponeva di guidarlo trascinandosi dietro la “vecchia” socialdemocrazia. È probabile che parte del suo stesso gruppo dirigente ci abbia creduto poco e che parte dei suoi elettori non se la sia sentita di seguirlo. Ora Iglesias riflette: Moruno, il portavoce, ci anticipa qualcosa.
Nel Regno Unito il leader del Labour, Jeremy Corbyn, si è schierato tardi, e in modo assai timido, contro Brexit. Perché non voleva confondersi con Cameron e perché riteneva più importante difendere salari, diritti, welfare piuttosto che un’Unione a guida tedesca. Ora una parte del suo partito, e la maggioranza del suo gruppo parlamentare, ne chiede la testa. Pensa che in ogni caso né gli operai né il ceto medio deluso torneranno a votare per il Labour Party. Dunque a che serve Corbyn? Meglio proporre un nuovo New Labour che allacci rapporti con la City, parli ai giovani che avrebbero preferito restare in Europa, punti sulle città , si batta per i diritti più che contro il privilegio. Sadiq Kahn, neo sindaco di Londra, potrebbe offrire il suo volto a questo nuovo New Labour. Ma Corbyn promette battaglia, sostiene a ragione che la riforma della sinistra debba passare per la sfida al neoliberismo, alla dittatura dei mercati, alle leggi del profitto di borsa che crea utili per multinazionali e fondi d’investimento, ma brucia i risparmi delle famiglie e crea nuove disuguaglianze. Lunedì il voto di sfiducia. Vedremo.
In Italia, Matteo Renzi era nell’angolo. Sconfitto a Roma e Torino, incapace di intendere la protesta delle periferie, non più incondizionamente sostenuto dai media. E destinatario di consigli non richiesti: cambia l’Italicum (Veltroni), non legare la sorte del governo al referendum (Del Rio). Ma Brexit gli ha offerto un’occasione: ora promette di piegare Berlino e Bruxelles, di spendere in deficit, di aggirare il bail in per salvare le banche. E ha trovato una bandiera, la “delicata bellezza del sentimento europeo”.
Una sinistra dovrebbe sfidarlo. Appoggerai Tsipras? Convincerai Sánchez a dialogare con Iglesias. Chiederai alla Merkel di ridurre il surplus commerciale alzando i salari tedeschi e dando fiato all’eurozona? O sei ormai troppo legato alla casta e fai solo fuffa?

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