Più sviluppo, più occupazione, più innovazione, sempre che si riesca a ottenerli, non comportano automaticamente minore disuguaglianza. Il premier deve stare attento, anzi, perché può esser vero il contrario

Sviluppo, innovazione, migranti. Questi sono gli obiettivi che Renzi pone all’Europa dopo il Brexit. Purtroppo però ne mancano altri due: equità e solidarietà.

Perché proprio aver vissuto le politiche dell’Unione Europea come squilibrate a favore di qualcuno – dei più abbienti, non solo tra i Paesi, ma anche e soprattutto tra i gruppi sociali, dei più istruiti, di coloro che godono dei benefici della globalizzazione – ignorandone i costi per altri – per i più periferici, coloro che sono vittime, piuttosto che beneficiari della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia, coloro sui cui spazi e modi di vita incide più immediatamente la pressione migratoria – ha motivato la crescente ostilità all’Unione, in Gran Bretagna come altrove.

La bugia di Farage (smentita il giorno stesso della vittoria del Leave) su a che cosa serviranno i finanziamenti non più destinati alla Ue hanno toccato un nervo scoperto: un sistema sanitario pubblico sempre più affaticato, servizi scolastici pubblici cui è affidato per intero il compito dell’integrazione dei migranti, quartieri periferici e intere cittadine lontane dallo scintillio della city e dei ceti internazionalizzati non per forza, ma per scelta.

L’esempio della Grecia non è passato invano: i ceti più deprivilegiati, in Inghilterra e altrove, hanno imparato che l’Europa non verrà in loro soccorso (a differenza di quanto ha fatto con le banche e con i grandi creditori), anzi, che proprio loro porteranno il peso maggiore delle politiche di austerità, tanto più se il loro governo è debole nello scacchiere europeo e internazionale. E tutti noi vediamo come tutti gli accordi sul ricollocamento dei migranti non riescano ad essere attuati.

Pensare che le cose cambino se si ritorna alla piena autonomia nazionale (posto che questa sia possibile in un mondo dove i mercati, finanziari e non, attraversano e scompigliano agevolmente i confini) può essere un’illusione. Non solo per gli effetti negativi sull’economia immediati e di medio periodo dell’uscita, ma perché la crescente disuguaglianza tra gruppi sociali e tra centro e periferia non sono solo l’effetto delle “politiche di Bruxelles”, ma anche di politiche nazionali che le hanno sistematicamente ignorate, quando non incoraggiate in nome del “mercato” e della “crescita”. Derubricare il tutto a populismo (o peggio, a ignoranza), tuttavia, non aiuta a capire il disagio profondo che sta dietro al Brexit, a tutti i movimenti che in giro per l’Europa sono tentati di andare nella stessa direzione, ed anche, per rimanere nel nostro piccolo, al sommovimento politico emerso nelle elezioni locali. Il ritorno prepotente della disuguaglianza, nelle sue forme classiche ed anche in alcune inedite, non è solo un tema per dibattiti accademici. È qualche cosa che tocca la vita e le speranze di migliaia di persone, in Gran Bretagna come in altri Paesi, inclusa l’Italia. Persone che non vogliono subire anche la beffa di sentirsi trattare da ignoranti resistenti al cambiamento e preda di ogni sirena populista. Se il populismo cavalca questi temi e se ne avvantaggia, senza risolverli, continuare ad ignorarli non può che peggiorare il senso di esclusione e sfiducia.

Ciò che non solo la Commissione Europea per quanto riguarda la tenuta dell’UE, ma anche Renzi, il governo, il Parlamento italiano per quanto riguarda l’Italia, dovrebbero finalmente capire è che non solo lo sviluppo, almeno nel senso tradizionale, non è dietro l’angolo, che molta occupazione distrutta non tornerà più, che l’innovazione tecnologica crea nuova occupazione ma anche ne distrugge. Succede anche che la domanda di lavoro si segmenta sempre più tra buona e cattiva occupazione, divaricando forse più di un tempo opportunità e condizioni di vita. Più sviluppo, più occupazione, più innovazione, posto che si riesca a ottenerli, non comportano automaticamente minore disuguaglianza. Può anzi essere vero il contrario.

Viceversa, ridurre le disuguaglianze sia con politiche di pari opportunità che compensino gli svantaggi di partenza (istruzione, miglioramento delle condizioni di vita nei contesti più disagiati, servizi “abilitanti” alla partecipazione al lavoro e sociale, salari decenti), sia con politiche redistributive che sostengono situazioni di particolare vulnerabilità impedendo che si incancreniscano, riduce il potenziale di rancore ed estraneazione. Facilita anche lo stesso sviluppo – economico, sì, ma anche sociale e umano. Lo ha capito anche l’Ocse, abbandonando la filosofia iper-liberistica di qualche anno fa, come si evince dal rapporto del 2015, In it together. Why less inequality benefits all.

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