Dopo il golpe e la repressione Erdogan può ricattare gli alleati. Ora l’Europa non gli interessa più. E la Turchia del sultano diventa l’ago della bilancia di nuovi equilibri geopolitici

Chissà se lo farà. Molto probabilmente no. Ma che non ci abbia mai pensato, che magari non se lo sia mai sognato di notte, a questo non potrei mai crederci. Mi ci giocherei la mano destra. Dal canto mio, ebbene sì, I have a dream. O meglio, I would like to have a dream. Per puro spirito facinoroso, se volete; o per smodato, irrepresso desiderio di avventura, per seguire fino in fondo sulle orme di Chateubriand e di Loti le mie fantasie orientaliste. Vorrei un sogno magari in quel magico technicolor anni Cinquanta: ve lo ricordate, Topkapi con Melina Mercuri? Vorrei vedere ancora, come l’ho sempre immaginata e non l’ho mai vista, la magica città sfolgorante sul Bosforo signora dell’intera ecumène, com’è stata o comunque si è illusa di essere stata almeno due volte, con Giustiniano prima e con Solimano poi. Del resto, l’aveva ben detto Napoleone: l’unica città davvero degna di diventare capitale del mondo è Costantinopoli.
E un sogno del genere deve aver illuminato spesso le notti di Recep Tayyip Erdogan, che pure il suo palazzo – più o meno kitsch di quello di Ceausescu a Bucarest? – se l’è fatto costruire nella “moderna”, “europea” Ankara, non troppo distante dal mausoleo alla Albert Speer dedicato al padre della patria Mustafa Kemal Ataturk. Ankara è l’antitesi di Istanbul, l’immagine non della sua sconfitta ma della ribellione ad essa come fatto di civiltà, come scelta di cultura. Reinsediare la capitale a Istanbul significherebbe negare in blocco un secolo di politica turca “laica”, i fondamenti kemalisti stessi di essa: sarebbe insomma davvero un gesto “neo-ottomano”. È arduo credere che il presidente abbia mai sul serio pensato qualcosa del genere (il vagheggiamento è altra cosa); è praticamente improponibile che proverà mai a farlo, anche per le difficoltà logistiche, economiche e diplomatiche (al di là delle politiche e culturali) che ciò comporterebbe.

Ankara va stretta al sultano
Tuttavia, ad Erdogan Ankara è sempre andata stretta. Sono molti i suoi sostenitori che rimpiangono il tempo in cui egli era sindaco della città del Bosforo: e se qualcuno si fosse illuso di averlo una volta per tutte cacciato di là, come ai tempi delle manifestazioni del Parco Gezi, ormai si sarà definitivamente ricreduto. Governo e palazzo del “sultano” stanno ancora ad Ankara, magari (forse) perfino ci resteranno: ma il cuore di Recep Tayyip è lì, sul Corno d’Oro, nella città di cui è stato sindaco e la cui composizione etnoculturale è riuscito in pochi anni a mutare radicalmente in modo da mettere la schiera dei borghesi e degli intellettuali kemalisti dei quartieri del centro in minoranza numerica rispetto ai suoi fans, i contadini inurbati dalla Cappadocia e stipati nei nuovi quartieri periferici. Gente semplice, che dell’Akp apprezza soprattutto il rinnovato fervore musulmano. Il giorno che la capitale turca tornasse sul Bosforo, potremmo davvero dire che la rivoluzione laica di Mustafa Kemal ha concluso il suo ciclo. Sarebbero un gesto e un passo davvero epocali, paragonabili forse solo alla “rivoluzione islamica” iraniana dell’imam Rukhullah Khomeini, ma dal significato ancora più intenso e sconvolgente. E dalle conseguenze più profonde di quanto ancora non ci s’immagini.

 

Il cuore di Recep Tayyip è nella città di cui è stato sindaco e la cui composizione etnoculturale è riuscito a mutare, in modo da mettere i kemalisti del centro in minoranza

 

Fantastoria? Può darsi: fatto è che nelle ore immediatamente successive al golpe, Erdogan a Istanbul c’era davvero, nonostante i militari ribelli agissero anche nella capitale. Era lì, nella città imperiale, che si giocavano sul serio le sorti della nazione turca. Il nodo del suo passato, la freccia del suo futuro.
Il golpe militare del 15 luglio, che secondo l’assetto schizofrenico del mondo turco dopo la prima guerra mondiale ha dovuto agire contemporaneamente sui due fronti di Istanbul e di Ankara, era forse stato architettato da tempo. Eppure si è presentato confuso, incerto, piuttosto estraneo alle inveterate e abilissime consuetudini golpiste dell’esercito turco, presidio tanto efficiente quanto inflessibile della rivoluzione “laica” kemalista. Anche l’altissimo numero delle vittime è prova di questa incertezza, non del contrario. Erdogan, che è orgoglioso di essere il comandante in capo dell’esercito, non se ne è però mai fidato e gli ha costantemente preferito e contrapposto la polizia: i fatti della notte tra il 15 e il 16 gli hanno dato ragione. Ma, dinanzi allo spettacolo delle forze degli insorti caratterizzate da tanta labilità, qualcuno si è pur chiesto se non era per caso tutta una sceneggiata, una combine; e se insomma il presidente il golpe non se l’è fatto da solo – magari con la complicità involontaria di alcuni antierdoganisti ingannati da una falsa congiura orchestrata dai servizi governativi – per potersi poi prendere l’impunito piacere e lo sconfinato vantaggio di reprimerlo duramente spazzando via in un colpo solo e una volta per tutte gli avversari, i sospetti e gli incerti.

 

L’agenzia iraniana Fars sostiene che sarebbero stati i russi a informarne il presidente turco prevenendo in tal modo la sua cattura da parte di un commando

 

L’ipotesi sarebbe convincente, in via teorica: ma non ve ne sono prove, e gli stessi indizi scarseggiano. Mille j’accuse non valgono un’evidenza testimoniale o documentaria; e queste ultime mancano. La stessa violenza con la quale si sono svolti i fatti, con centinaia di morti, provoca molti dubbi sul fatto che si sia tratto di una messinscena sia pur attuata da militari in buona fede vittime di una provocazione.
Voci più consistenti – a parte le prove raccolte in seguito agli interrogatori dei capi ribelli, e che fuori della Turchia sono state valutate con uno scetticismo sistematico forse imprudente – sostengono invece che il golpe era autentico, e che il fatto che non sia stato segnalato tempestivamente dai servizi turchi è la prova che era ben architettato e che le complicità nei suoi confronti erano molto diffuse: sino a far pensare non che i servizi siano poi così scadenti, bensì che infiltrazioni “kemaliste” o “güleniste” abbiano inquinato anche ambienti del ministero degli Interni, dei servizi segreti nazionali, del controspionaggio militare. Stando a queste fonti – verificare le quali è difficile – i militari ribelli sarebbero stati instigati da ambienti vicini al Pentagono (non alla presidenza Usa), ma la cosa sarebbe fallita in seguito a un intervento del Mossad avviato all’insaputa degli americani dalla base di Konia. Una scelta conseguente, quella dei servizi israeliani, rispetto ai recenti passi diplomatici distensivi compiuti insieme da Ankara e da Gerusalemme?

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