Perché ci occupiamo di Siria questa settimana, cercando di raccontare cosa succede nel Paese e attorno? Perché in Siria non c’è più la guerra civile. Non in senso proprio. Il conflitto è entrato in una nuova fase.

Perché ci occupiamo di Siria questa settimana, cercando di raccontare cosa succede nel Paese e attorno (e anche nell’Iraq che confina con le aree occupate dall’Isis)? Perché in Siria non c’è più la guerra civile. Non in senso proprio. Il conflitto è entrato in una nuova fase.

Nel settembre 2015, quando i russi hanno cominciato a sostenere gli sforzi militari del regime di Assad finendo con l’essere coinvolti in maniera crescente dal punto di vista militare e politico, abbiamo assistito a un tardivo ritorno della Guerra fredda sul territorio siriano. E le conseguenze per i civili non sono state prese in gran considerazione, neppure dai governi europei, impegnati solo a ragionare su come e dove rispedire centinaia di migliaia di persone in fuga dalla guerra.

Dal 20 settembre scorso invece, a un anno da quel primo coinvolgimento ufficiale, la Russia – o le forze armate siriane – ha attaccato dal cielo un convoglio di aiuti umanitari diretto ad Aleppo. E la guerra siriana è cambiata.
Dopo quell’attacco aereo, avvenuto durante i primi giorni del cessate-il-fuoco lungamente negoziato tra Washington, Mosca e le parti che si combattono sul terreno, abbiamo assistito alla presa di mira di almeno tre ospedali nella città chiave della guerra di Siria, all’intensificarsi dei bombardamenti con ordigni di ogni tipo, da quelli al fosforo a quelli a grappolo, fino agli ordigni pensati per distruggere i bunker. E poco importa distinguere se si tratti delle sale operatorie sotterranee degli ospedali, delle scuole o di rifugi dei ribelli.
Se un tempo, insomma, ci si poteva rifugiare sotto terra, oggi nemmeno i rifugi anti aerei sono un luogo sicuro. Di questi giorni anche l’avanzata via terra e la conquista di nuovi quartieri da parte di quelle che chiamiamo truppe siriane, ma che sono ormai la sommatoria di soldati regolari, miliziani hezbollah libanesi, guardie della rivoluzione iraniane, milizie sciite di vario ordine e grado.

Da Aleppo arrivano immagini e testimonianze terribili: tutti raccontano come le settimane appena trascorse siano le peggiori da quando l’assedio è cominciato. Del resto, se come spiegano Putin e Lavrov a ogni pié sospinto, i nemici di Assad sono solo e tutti terroristi, perché non usare con loro mezzi brutali? Una ragione sarebbe che, come ormai ricordano in pochi, la rivolta siriana cominciò pacifica, e che solo la repressione brutale di Damasco l’ha trasformata in una guerra alla quale partecipano milizie jihadiste che si alimentano e crescono, per stessa ammissione dei loro capi, grazie alla brutalità di Assad. Il disinteresse occidentale, insomma, ha reso più deboli quelle forze che chiedevano riforme e più forti gli estremisti islamici.

Damasco e Mosca sembrano aver deciso che il disordine europeo e la campagna elettorale americana sono una finestra temporale di cui approfittare. Prendere Aleppo significherebbe ottenere una vittoria simbolica enorme, aumentando di molto il valore delle carte da giocare a un eventuale tavolo negoziale in sede Onu – che non potrà fare altro, se e quando ce ne sarà uno, che sancire la divisione del Paese. Nel frattempo i civili di Aleppo e delle altre decine di città e villaggi dove si combatte continueranno a morire, avere fame, sete e bisogno di cure. Il ricordo va a una guerra lontana, che avvenne con una sorta di beneplacito occidentale e che finì con città rase al suolo e opposizione annientata: quella di Cecenia. Da dove, non a caso, arriva qualche combattente straniero dell’Isis e dove il Califfato ha cominciato a mettere qualche base.

Si può fare qualcosa? C’è un appello alla pace credibile? O è il tempo di aumentare la pressione su Mosca da parte occidentale? Il primo passo è quello di Kerry, che all’ennesimo schiaffo preso dal suo omologo russo Lavrov ha deciso di interrompere i colloqui con Mosca a tempo indeterminato, «una decisione non presa a cuor leggero» recita il comunicato del Dipartimento di Stato. Di fronte a violazioni delle regole internazionali e alla morte di centinaia di bambini ci sono strumenti plausibili che non siano diplomatici? Difficile a dirsi. Riconoscere la dissoluzione della Siria come entità statuale nazionale, pensare a soluzioni federali alla bosniaca, a no-fly zone come quella del nord curdo dell’Iraq dopo il ritiro americano del 1991, o usare gli aerei per proteggere i civili è una strada sicuramente difficile da percorrere, ma anche l’unica. Solo frenando la ferocia della guerra in corso, gonfiando il petto con la Russia, ma senza intervenire sul terreno, si può pensare di avviare un tavolo negoziale vero. Un tavolo che ragioni sulle conseguenze regionali della fine del conflitto e che veda tutti i Paesi coinvolti in questa guerra per procura.

Lasciarlo fare solo agli americani, che fino all’intervento russo hanno trattato la Siria come fosse un problema secondario, sarebbe sbagliato. L’altro errore sarebbe lavorare per sfere di influenza: iraniani, qatarini, turchi e poi gli alleati maggiori: i russi da un lato, gli americani dall’altro. Un clima da Guerra fredda fuori tempo. Anche per questo, se esistesse una diplomazia europea capace di iniziativa autonoma e credibile, sarebbe buono e giusto vederla intervenire. Ma proprio in questi giorni l’Europa ha imposto all’Afghanistan un accordo sul rientro dei rifugiati: Kabul si riprende i suoi senza fiatare e gli aiuti proseguono. Questa Europa, insomma, non è all’altezza.