Sex&trash, l’incazzato, l’invasione, il teatrino. E un invito lanciato da un banner a destra: “Libera la bestia che c’è in te. Scrivi anche tu per Il populista”. La testata ha sede a Bergamo e il condirettore è Matteo Salvini. Della serie, sono quello che voi volete che io sia, purché mi votiate. Anche gli abbracci alla nazionalista Marine Le Pen e l’idea di togliere il riferimento geografico nel simbolo della Lega vanno bene, se l’obiettivo è “andiamo a governare” come cantava e ballava, petto in fuori, in un video di qualche tempo fa. Cosa non si fa per cavalcare il risentimento popolare contro l’establishment o l’élite corrotta, e per far dimenticare che si è leader di una forza politica che, almeno al Nord, è establishment eccome! E in alcuni casi anche élite corrotta... Veniamo al suo omonimo presidente del Consiglio: a pochi giorni dall’entusiasmante viaggio alla Casa Bianca, riconosce a Trump di essere interprete del cambiamento più di Clinton, sostenuta dall’inquilino uscente della stessa Casa Bianca, quell’Obama che Matteo Renzi definisce simbolo di democrazia. Un ragionamento da funambolo, verrebbe da dire. Il tentativo di stare sempre e comunque dalla parte di chi vince. Non ci riesce proprio il presidente del Consiglio a vestire i panni del perdente, neanche per il tempo della rimonta a suon di simpatia, come gli ha suggerito il suo amico Farinetti. Egli che è al contempo nemico dell’Europa dell’austerity e preciso applicatore dei suoi dettami, salvo spostare in avanti il momento della resa dei conti, possibilmente dopo il referendum che lo consacrerà - confida lui - primo premier forte della nuova Repubblica. Non più di sinistra, non ancora di destra. Nuovo ma alleato con vecchi arnesi della politica. Anti-establishment e amico dei finanzieri. Populista di lotta e di governo, come Salvini. Di questo siamo preoccupati, come lo siamo per l’aria che tira in Europa, a maggior ragione dopo la vittoria di Trump. Ci spaventano gli otto odiosi e rancorosi, gli Hateful Eight che abbiamo messo in copertina, e temiamo che siano ben più di otto. Ci preoccupa il modo in cui riescono a intercettare consensi e a fare riferimento a un indefinito popolo, a determinare la loro piattaforma politica a suon di sondaggi (ogni riferimento a fatti o persone note è decisamente voluto), a esprimere una visione di futuro che è un collage di paure e ricette passatiste. Ragioniamo su quale sia la risposta, partendo da una riflessione “americana”, quella sui media mainstream tutti convinti della vittoria di Clinton, e da una riflessione sulla sinistra, che a volte pretende di decidere di cosa ha bisogno chi è rimasto indietro senza sapere che cosa davvero vuole e pensa chi è rimasto indietro. Scollamento con la base, si sarebbe detto un tempo. Ma non è neanche più così, perché abbiamo rottamato i partiti novecenteschi senza sperimentare nuove forme di vera partecipazione e formazione politica. Una base non c’è più. E i voti si conquistano con la simpatia, ma non nel senso originario di “comune sentire”, putroppo. Che cosa deve fare dunque la sinistra? Esserci. Starci con il popolo e crescere con “quelli di sotto”, tornare a formare e a formarsi come classe dirigente, costruire fianco a fianco le soluzioni partendo dai bisogni e investigando le diverse esigenze. Sentendo insieme a quelli di sotto, facendo così la differenza tra “popolisti” e populisti. I primi il popolo lo amano e non lo considerano un’entità indistinta, i secondi - lo leggerete nella nostra storia di copertina - lo blandiscono ingannandolo. [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

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Sex&trash, l’incazzato, l’invasione, il teatrino. E un invito lanciato da un banner a destra: “Libera la bestia che c’è in te. Scrivi anche tu per Il populista”. La testata ha sede a Bergamo e il condirettore è Matteo Salvini. Della serie, sono quello che voi volete che io sia, purché mi votiate. Anche gli abbracci alla nazionalista Marine Le Pen e l’idea di togliere il riferimento geografico nel simbolo della Lega vanno bene, se l’obiettivo è “andiamo a governare” come cantava e ballava, petto in fuori, in un video di qualche tempo fa. Cosa non si fa per cavalcare il risentimento popolare contro l’establishment o l’élite corrotta, e per far dimenticare che si è leader di una forza politica che, almeno al Nord, è establishment eccome! E in alcuni casi anche élite corrotta…

Veniamo al suo omonimo presidente del Consiglio: a pochi giorni dall’entusiasmante viaggio alla Casa Bianca, riconosce a Trump di essere interprete del cambiamento più di Clinton, sostenuta dall’inquilino uscente della stessa Casa Bianca, quell’Obama che Matteo Renzi definisce simbolo di democrazia. Un ragionamento da funambolo, verrebbe da dire. Il tentativo di stare sempre e comunque dalla parte di chi vince. Non ci riesce proprio il presidente del Consiglio a vestire i panni del perdente, neanche per il tempo della rimonta a suon di simpatia, come gli ha suggerito il suo amico Farinetti. Egli che è al contempo nemico dell’Europa dell’austerity e preciso applicatore dei suoi dettami, salvo spostare in avanti il momento della resa dei conti, possibilmente dopo il referendum che lo consacrerà – confida lui – primo premier forte della nuova Repubblica. Non più di sinistra, non ancora di destra. Nuovo ma alleato con vecchi arnesi della politica. Anti-establishment e amico dei finanzieri. Populista di lotta e di governo, come Salvini.
Di questo siamo preoccupati, come lo siamo per l’aria che tira in Europa, a maggior ragione dopo la vittoria di Trump. Ci spaventano gli otto odiosi e rancorosi, gli Hateful Eight che abbiamo messo in copertina, e temiamo che siano ben più di otto. Ci preoccupa il modo in cui riescono a intercettare consensi e a fare riferimento a un indefinito popolo, a determinare la loro piattaforma politica a suon di sondaggi (ogni riferimento a fatti o persone note è decisamente voluto), a esprimere una visione di futuro che è un collage di paure e ricette passatiste.
Ragioniamo su quale sia la risposta, partendo da una riflessione “americana”, quella sui media mainstream tutti convinti della vittoria di Clinton, e da una riflessione sulla sinistra, che a volte pretende di decidere di cosa ha bisogno chi è rimasto indietro senza sapere che cosa davvero vuole e pensa chi è rimasto indietro. Scollamento con la base, si sarebbe detto un tempo. Ma non è neanche più così, perché abbiamo rottamato i partiti novecenteschi senza sperimentare nuove forme di vera partecipazione e formazione politica. Una base non c’è più. E i voti si conquistano con la simpatia, ma non nel senso originario di “comune sentire”, putroppo. Che cosa deve fare dunque la sinistra? Esserci. Starci con il popolo e crescere con “quelli di sotto”, tornare a formare e a formarsi come classe dirigente, costruire fianco a fianco le soluzioni partendo dai bisogni e investigando le diverse esigenze. Sentendo insieme a quelli di sotto, facendo così la differenza tra “popolisti” e populisti. I primi il popolo lo amano e non lo considerano un’entità indistinta, i secondi – lo leggerete nella nostra storia di copertina – lo blandiscono ingannandolo.

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