«Vedo dal mio osservatorio madrileno, fuori dai dibattiti quotidiani italiani, che a sinistra del Pd l’errore si ripete uguale come ai tempi di Rifondazione. Mi sfugge la parte construens...». Così una mia amica e collega mi scriveva in privato dopo aver letto il mio editoriale sui populismi “di lotta e di governo”. Mi esplicitava la sua incertezza su cosa votare il 4 dicembre e sosteneva di poter distinguere tra riforma costituzionale e governo. Pochi giorni dopo è venuto a trovarmi in redazione un giornalista francese. Davanti a un caffè, ha raccontato che all’estero molti vedono la riforma costituzionale come uno strumento per garantire la governabilità nel Paese dei “venti governi dal 1992”. Così abbiamo deciso di rispondere con il servizio di copertina di questo numero.“Perché No?” ci siamo chiesti ancora una volta, convinti che trovare nuove risposte sia un irrinunciabile stimolo a migliorare. Abbiamo approfondito il “mantra” della governabilità da assicurare a tutti i costi (cavallo di battaglia del Comitato per il Sì), provando a sviscerarlo con i costituzionalisti Azzariti e Carlassare, senza tecnicismi. Abbiamo ragionato di populismo “di governo” come sintomo di un sistema politico in crisi. E abbiamo raccolto alcuni contributi dai quali si traggono evidenze di fondo. Ne viene fuori che la riforma costituzionale è una sorta di “arma di distrazione di massa” dietro alla quale si celano i fallimenti della classe politica di questi venti e più anni. Un’arma impugnata per sostituire la rappresentanza e la partecipazione con la concentrazione del potere in mano a un governo allineato al pensiero unico e al neoliberismo. L’altra evidenza riguarda proprio l’esistenza e la praticabilità di un’alternativa al pensiero unico per cui il potere dev’essere nelle mani di pochi (e qui si trova il nesso tra riforma e governo che non vede la mia amica giornalista). Non a caso, entrambi i costituzionalisti citano Costantino Mortati, costituente e studioso della Costituzione, scomparso nel 1985. A lui che era tutt’altro che un pericoloso comunista - fu deputato della Dc - si deve l’idea di una democrazia che funziona soltanto se si riducono le disuguaglianze e si garantiscono la rappresentanza e la partecipazione. Certo, siamo lontani dai tempi in cui si poteva ragionare della centralità dei partiti politici, ma è evidente la necessità di trovare forme nuove di protagonismo politico, in grado di garantire le libertà e l’autonomia dei territori e di valorizzare il conflitto come presupposto di scelte condivise. E non consociative. Così, il nostro “Perché no?” è diventato “Perché No!”, un’esclamazione che porta con sé il gusto della sfida collettiva, affrontata con la consapevolezza che, come diceva Guevara, «i liberatori non esistono, sono i popoli che si liberano da sé». Abbiamo chiesto “Perché no?” anche ad alcuni esponenti della sinistra, ai sindaci di Roma e di Napoli, a persone del mondo della ricerca e della cultura. Qualche punto in comune c’è, forse gli albori di quella pars construens che la mia amica trapiantata a Madrid cerca e giustamente non trova nella politica politicante, e che noi troviamo - molto spesso - nella società. Tanta strada si dovrà ancora fare. Sarebbe bello partire dalla vittoria del No. Una vittoria collettiva e sentita. Un trampolino per mettere insieme tutte le energie possibili e impossibili e costruire una democrazia diversa. Diversa dai populismi dall’alto e da quelli dal basso. Diversa da quella che abbiamo vissuto in questi ultimi quasi 30 anni e diversa da quella che avremmo se vincesse il Sì. Comunque vada, siamo fieri di essere dalla parte giusta. Insieme. Ps: Dalla prossima settimana avrete tra le mani una Left rinnovata. L’obiettivo è di restituirvi sempre meglio quello che vogliamo essere: una rivista che va a fondo, che pensa, studia e viaggia, che costruisce sinistra senza inganni. La pars construens della democrazia che vogliamo. [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

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«Vedo dal mio osservatorio madrileno, fuori dai dibattiti quotidiani italiani, che a sinistra del Pd l’errore si ripete uguale come ai tempi di Rifondazione. Mi sfugge la parte construens…». Così una mia amica e collega mi scriveva in privato dopo aver letto il mio editoriale sui populismi “di lotta e di governo”. Mi esplicitava la sua incertezza su cosa votare il 4 dicembre e sosteneva di poter distinguere tra riforma costituzionale e governo.
Pochi giorni dopo è venuto a trovarmi in redazione un giornalista francese. Davanti a un caffè, ha raccontato che all’estero molti vedono la riforma costituzionale come uno strumento per garantire la governabilità nel Paese dei “venti governi dal 1992”.
Così abbiamo deciso di rispondere con il servizio di copertina di questo numero.“Perché No?” ci siamo chiesti ancora una volta, convinti che trovare nuove risposte sia un irrinunciabile stimolo a migliorare.
Abbiamo approfondito il “mantra” della governabilità da assicurare a tutti i costi (cavallo di battaglia del Comitato per il Sì), provando a sviscerarlo con i costituzionalisti Azzariti e Carlassare, senza tecnicismi. Abbiamo ragionato di populismo “di governo” come sintomo di un sistema politico in crisi. E abbiamo raccolto alcuni contributi dai quali si traggono evidenze di fondo. Ne viene fuori che la riforma costituzionale è una sorta di “arma di distrazione di massa” dietro alla quale si celano i fallimenti della classe politica di questi venti e più anni. Un’arma impugnata per sostituire la rappresentanza e la partecipazione con la concentrazione del potere in mano a un governo allineato al pensiero unico e al neoliberismo.

L’altra evidenza riguarda proprio l’esistenza e la praticabilità di un’alternativa al pensiero unico per cui il potere dev’essere nelle mani di pochi (e qui si trova il nesso tra riforma e governo che non vede la mia amica giornalista). Non a caso, entrambi i costituzionalisti citano Costantino Mortati, costituente e studioso della Costituzione, scomparso nel 1985. A lui che era tutt’altro che un pericoloso comunista – fu deputato della Dc – si deve l’idea di una democrazia che funziona soltanto se si riducono le disuguaglianze e si garantiscono la rappresentanza e la partecipazione. Certo, siamo lontani dai tempi in cui si poteva ragionare della centralità dei partiti politici, ma è evidente la necessità di trovare forme nuove di protagonismo politico, in grado di garantire le libertà e l’autonomia dei territori e di valorizzare il conflitto come presupposto di scelte condivise. E non consociative.
Così, il nostro “Perché no?” è diventato “Perché No!”, un’esclamazione che porta con sé il gusto della sfida collettiva, affrontata con la consapevolezza che, come diceva Guevara, «i liberatori non esistono, sono i popoli che si liberano da sé». Abbiamo chiesto “Perché no?” anche ad alcuni esponenti della sinistra, ai sindaci di Roma e di Napoli, a persone del mondo della ricerca e della cultura. Qualche punto in comune c’è, forse gli albori di quella pars construens che la mia amica trapiantata a Madrid cerca e giustamente non trova nella politica politicante, e che noi troviamo – molto spesso – nella società. Tanta strada si dovrà ancora fare.

Sarebbe bello partire dalla vittoria del No. Una vittoria collettiva e sentita. Un trampolino per mettere insieme tutte le energie possibili e impossibili e costruire una democrazia diversa. Diversa dai populismi dall’alto e da quelli dal basso. Diversa da quella che abbiamo vissuto in questi ultimi quasi 30 anni e diversa da quella che avremmo se vincesse il Sì.
Comunque vada, siamo fieri di essere dalla parte giusta. Insieme.

Ps: Dalla prossima settimana avrete tra le mani una Left rinnovata. L’obiettivo è di restituirvi sempre meglio quello che vogliamo essere: una rivista che va a fondo, che pensa, studia e viaggia, che costruisce sinistra senza inganni. La pars construens della democrazia che vogliamo.

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