«Lock her up, Lock her up!». Così gridava la folla repubblicana durante i comizi della campagna elettorale del 2016 riferendosi a Hillary Clinton. Per giustificare l’idea di “sbattere in cella” l’ex Segretario di Stato ci si riferiva al caso dell’account di posta elettronica privato utilizzato al posto di quello ufficiale e all’attacco terroristico contro l’ambasciata Usa a Bengasi dove perse la vita l’ambasciatore Stevens. In entrambi i casi, dicevano i repubblicani, Hillary e il suo staff avevano sbagliato e fornito una versione che cancellava le tracce dei propri errori. Cinque inchieste parlamentari e un interrogatorio di 8 ore in diretta Tv dopo, i repubblicani non sono riusciti a trovare traccia delle loro accuse. Niente arresti, carcere, condanne, ma certo una macchia sulla credibilità della candidata Clinton. Quel che cercavano i repubblicani quando aprivano le loro commissioni di inchiesta su Bengasi.
I casi contro Hillary erano frutto di un disegno politico e sarà bene ricordarselo oggi, mentre in molti invocano l’impeachment per Donald Trump. Indubbiamente le informazioni sugli intrecci tra la campagna elettorale del presidente Usa e le autorità russe sono più di quanto non immaginassimo e le rivelazioni del Washington Post sulle note prese dall’ex direttore della Cia, James Comey, per registrare il contenuto dei suoi incontri privati con Trump, sono una bomba. Come è ormai arcinoto il presidente avrebbe chiesto di interrompere l’inchiesta del Federal bureau su quegli intrecci e, in particolare sull’ex Consigliere alla sicurezza nazionale Michael Flynn.
Ma si fa presto a dire impeachment. Il processo di estromissione dal potere di un presidente degli Stati Uniti viene spesso nominato dai suoi avversari ma raramente utilizzato dal Congresso, che è l’istituzione incaricata, nel disegno costituzionale americano, di decidere se l’inquilino della Casa Bianca abbia commesso “tradimento, sia stato corrotto o abbia compiuto altri gravi crimini o misfatti”, come si legge nell’articolo 2 del testo redatto alla Covention di Philadelphia nel 1787. Nella vita vera i processi di impeachment sono stati solo due e non hanno portato alla deposizione del presidente. Il terzo non è mai cominciato perché Richard “Tricky Dick” Nixon si è dimesso per evitarlo.
Che lezioni possiamo trarre dai casi precedenti? Molte: la prima è che nei due casi in cui il meccanismo è stato messo in moto, la scelta di avviare l’impeachment è stata molto politica e poco legata alla gravità degli accadimenti. L’unico caso in cui il processo aveva senso e avrebbe forse avuto avuto delle conseguenze è proprio quello collegato al Watergate. Ma non ci fu bisogno di farlo.
Il presidente Johnson arrivò al potere a causa dell’assassinio di Abraham Lincoln, essendo il suo vice, ma provenendo dalle fila del partito democratico, allora potente al Sud. Il suo piano per il post-seccessione e sulla schiavitù non piaceva ai repubblicani, che prima votarono una una regola sul licenziamento del Segretario alla guerra e poi la usarono per sostenere che il presidente aveva infranto gravemente la legge. Il processo durò tre mesi e si concluse con il proscioglimento del presidente.
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