Da Andrew Johnson a Clinton passando per Nixon, i casi di tentata destituzione del presidente Usa sono solo tre. Spesso dettati dalla politica. Le accuse che alcuni muovono a Trump somigliano molto a quelle che portarono alla rovina del protagonista del Watergate, ma per ora sono articoli sui giornali, non frutto di indagini

«Lock her up, Lock her up!». Così gridava la folla repubblicana durante i comizi della campagna elettorale del 2016 riferendosi a Hillary Clinton. Per giustificare l’idea di “sbattere in cella” l’ex Segretario di Stato ci si riferiva al caso dell’account di posta elettronica privato utilizzato al posto di quello ufficiale e all’attacco terroristico contro l’ambasciata Usa a Bengasi dove perse la vita l’ambasciatore Stevens. In entrambi i casi, dicevano i repubblicani, Hillary e il suo staff avevano sbagliato e fornito una versione che cancellava le tracce dei propri errori. Cinque inchieste parlamentari e un interrogatorio di 8 ore in diretta Tv dopo, i repubblicani non sono riusciti a trovare traccia delle loro accuse. Niente arresti, carcere, condanne, ma certo una macchia sulla credibilità della candidata Clinton. Quel che cercavano i repubblicani quando aprivano le loro commissioni di inchiesta su Bengasi.

I casi contro Hillary erano frutto di un disegno politico e sarà bene ricordarselo oggi, mentre in molti invocano l’impeachment per Donald Trump. Indubbiamente le informazioni sugli intrecci tra la campagna elettorale del presidente Usa e le autorità russe sono più di quanto non immaginassimo e le rivelazioni del Washington Post sulle note prese dall’ex direttore della Cia, James Comey, per registrare il contenuto dei suoi incontri privati con Trump, sono una bomba. Come è ormai arcinoto il presidente avrebbe chiesto di interrompere l’inchiesta del Federal bureau su quegli intrecci e, in particolare sull’ex Consigliere alla sicurezza nazionale Michael Flynn.
Ma si fa presto a dire impeachment. Il processo di estromissione dal potere di un presidente degli Stati Uniti viene spesso nominato dai suoi avversari ma raramente utilizzato dal Congresso, che è l’istituzione incaricata, nel disegno costituzionale americano, di decidere se l’inquilino della Casa Bianca abbia commesso “tradimento, sia stato corrotto o abbia compiuto altri gravi crimini o misfatti”, come si legge nell’articolo 2 del testo redatto alla Covention di Philadelphia nel 1787. Nella vita vera i processi di impeachment sono stati solo due e non hanno portato alla deposizione del presidente. Il terzo non è mai cominciato perché Richard “Tricky Dick” Nixon si è dimesso per evitarlo.

Che lezioni possiamo trarre dai casi precedenti? Molte: la prima è che nei due casi in cui il meccanismo è stato messo in moto, la scelta di avviare l’impeachment è stata molto politica e poco legata alla gravità degli accadimenti. L’unico caso in cui il processo aveva senso e avrebbe forse avuto avuto delle conseguenze è proprio quello collegato al Watergate. Ma non ci fu bisogno di farlo.

Il presidente Johnson arrivò al potere a causa dell’assassinio di Abraham Lincoln, essendo il suo vice, ma provenendo dalle fila del partito democratico, allora potente al Sud. Il suo piano per il post-seccessione e sulla schiavitù non piaceva ai repubblicani, che prima votarono una una regola sul licenziamento del Segretario alla guerra e poi la usarono per sostenere che il presidente aveva infranto gravemente la legge. Il processo durò tre mesi e si concluse con il proscioglimento del presidente.

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