Gelo a Mosca, mura del Cremlino, ponte Bolshoj Moskvoretskij Most: il calendario segnava la data del 28 febbraio 2015, l’oppositore politico Boris Nemzov passeggiava con la sua fidanzata ucraina. Nel computer aveva i file di lavoro sul dossier che stava preparando sulle truppe russe nella guerra in Donbass, Ucraina. Non lo finirà mai perché morirà quella notte.
Due anni dopo, dopo otto mesi di udienze, i processi continuano. Presi gli esecutori e condannati: sono tutti ceceni. I mandanti invece, restano ignoti e ignorati dall’investigazione, come è accaduto in altri processi contro oppositori, attivisti, giornalisti russi.
A sparare sarebbe stato Zaur Dadajev e avrebbe premuto il grilletto contro Boris Nemzov per circa quindici milioni di rubli, più di 220mila euro, per lui e il resto dei suoi quattro complici. Il “patriota”, come il leader ceceno Ramzan Kadyrov definisce Dadajev, è l’esecutore di un ordine che nessuno sa ancora chi ha dato.
«E’ stata l’imitazione di un’inchiesta» ha scritto la figlia di Boris, Zhanna. Quando i russi passano su quel ponte ora lasciano sempre fiori rossi. Adesso non si chiama più Bolshoj, ma tra loro lo chiamano Nemtsov Most, ponte Nemtsov.