La guerra Usa al terrore globale, partita 18 anni fa da premesse false e delinquenziali, domina la scena politica e culturale del Paese. Con l’effetto di esacerbare il nazionalismo estremo, la paranoia e la xenofobia. Ecco perché il presidente non è “il problema” ma parte di esso

l 14 febbraio 2018 a Parkland, nel sudest della Florida, il diciannovenne Nikolas Cruz ha aperto il fuoco in una scuola dalla quale era stato precedentemente espulso come allievo, uccidendo 17 persone fra le quali 14 studenti. Negli Usa il fenomeno del mass shooting è stato in continuo aumento nell’ultimo decennio, con un picco percentuale proprio nel 2018. I numeri delle morti della violenza e della criminalità negli Stati Uniti sono davvero impressionanti. Dal 2000 al 2014 ci sono stati 270mila omicidi negli Usa, 600mila overdosi di droga (200mila da oppioidi) 650mila suicidi (130mila erano veterani di guerra) e 85mila morti sul lavoro. Dal 2000 al 2014 la polizia ha ucciso 12mila persone mentre 27mila immigrati sono morti nel tentativo di attraversare il confine con il Messico. Inoltre ci sono state 850 esecuzioni capitali mentre 2,2 milioni di persone sono in carcere e altre 4,7 milioni sono state sottoposte a misure alternative alla carcerazione o rilasciate sulla parola. Il modello del mass murderer nella modalità “pseudo commando”, nella quale viene perpetrata una strage con armi da guerra, deriva dalla convergenza di più fattori critici. Molti studi hanno confermato che esiste una correlazione fra il livello di diseguaglianza e la violenza che si esprime in una società. In contesto come quello degli Usa dove predomina lo sfruttamento selvaggio, una mancanza di accesso ai programmi di aiuto, dove fanno da padroni competizione e stress economico, milioni di persone vengono spinte fino al punto di rottura psicologico, cosa che, in soggetti con particolari patologie, può avere un esito catastrofico.

Inoltre la guerra al terrore, partita da premesse false e delinquenziali come quelle riconosciute da Tony Blair, oggi è al suo 18esimo anno e domina non solo la scena politica ma anche quella culturale, con l’effetto di una esacerbazione del nazionalismo estremo, della paranoia, della xenofobia. Soggetti psicotici vengono implicitamente indirizzati verso un acting out criminale che altro non è che l’imitazione “manierata” di un gesto “eroico”. L’omicida di massa è in realtà tutt’altro che coraggioso: egli è “manierato”, cioè falso, in quanto se la prende con gli studenti, i soggetti più deboli e indifesi.

L’altro fattore critico è l’assoluta deriva della psichiatria: gli Stati Uniti come ha affermato un eminente psichiatra come Allen Frances, sono il peggior Paese al mondo nel quale andare incontro ad una malattia psichica. I malati più gravi, spesso provenienti dalle classi meno abbienti, sono abbandonati a se stessi, mentre gli operatori della salute mentale creano malattie ad uso e consumo dei cosiddetti “normali”, sui quali cerca di lucrare con metodi criminali il cartello delle case farmaceutiche. Alla luce delle precedenti considerazioni, l’intervento recente di Donald Trump che vuole armare gli insegnanti per risolvere le stragi nelle scuole è più che stupido: è stolido. La stolidità, un’ottusità che rasenta l’idiozia, il presidente la condivide con molti politici nostrani apertamente xenofobi e a favore dell’uso della armi a scopo di sicurezza, fautori di rimpatri impossibili.

Un libro come Fuoco e furia di Michael Wolff è stato eccessivamente reclamizzato dalla stampa internazionale e da quella italiana. Apparentemente, il libro è una denuncia contro l’incapacità politica di Trump, contro i suoi più o meno presunti tradimenti: in realtà si fa leva sulla curiosità morbosa che la personalità assurda del tycoon suscita per confezionare un best seller. Ci si concentra sul gossip politico che rivela retroscena inconfessabili, gli intrighi del potere come nella profetica serie House of cards e si perde di vista il quadro generale di una società che manifesta segni di una sofferenza politica, culturale e psicologica profondissima. In 27 tra psichiatri e operatori della salute mentale coordinati da Bandy Lee, hanno confezionato nel 2017 un libro di denuncia, The dangerous case of Donald Trump, contro la pericolosità e l’instabilità mentale del presidente, che ha in mano la valigetta dell’arsenale nucleare, cadendo nello stesso equivoco, nello stesso errore di prospettiva in cui ci ha trascinato per un calcolo razionale Michael Wolff. Ci si concentra su un particolare, su di una persona o su di un circolo ristretto di persone al potere per non prendere in esame seriamente (e non con teorie ottocentesche) il contesto generale, la mentalità e la cultura politica che l’ha sostenuto.

Addirittura si conia il termine “Tad” acronimo per “Trump anxiety disorder”, come se fosse veramente la personalità dello zazzeruto Donald un fattore stressogeno rilevante per un gran numero di pazienti, cioè il motivo generatore di una psicopatologia che sarebbe sempre più diffusa e legata alla politica: siamo di fronte ad una ipervalutazione, a una idealizzazione, sia pure di segno negativo, che è essa stessa falsa e pericolosa. I 27 operatori della salute mentale straparlano e sostengono che il presidente appartiene alla cosiddetta “normalità maligna”, cioè diabolica, accogliendo una definizione di Erich Fromm, religiosissimo ebreo ortodosso come la sua famosa moglie Frieda Fromm Reichmann. Con riferimento al famoso film Gaslight (1944) diretto da George Cukor interpretato da Ingrid Bergman, il presidente viene definito un gaslighter, termine popolare nella letteratura psicologica per designare un manipolatore, uno che deliberatamente cerca di far uscire di senno qualcuno. In realtà non ci si accorge che Trump, “il cattivo”, non riesce neppure a essere normale, figuriamoci se riesce a far impazzire chicchessia.

Egli, per sua stessa ammissione, in una intervista dimenticata degli anni 90, soffre di una grave forma di délire du toucher da inquadrare nell’ambito della folie du doute per usare una terminologia degli alienisti ottocenteschi come Antoine Ritti e Henri Legrand du Saulle. Mitomania, rozzezza su cui si innesta la paura delirante dei germi, dello sporco, del contatto con altri esseri umani: paura di essere contaminato dagli islamici e dai sudici messicani. In sottofondo c’è un dubbio continuo e inconfessato che mina dalle fondamenta l’identità del leader repubblicano e lo spinge, in modo compensatorio, ad un acting out dissociato in risposta a problemi di politica interna e internazionale.

La lezione americana, le derive dittatoriali di Trump che viene paragonato ad Hitler, devono servirci per capire ciò che avviene in casa nostra, in Italia, dove a Macerata c’è stata recentemente una tentata strage a danno di immigrati neri da parte di un malato di mente che si proclama fascista. E le cronache sono piene di reiterate aggressioni femminicide e di atti di criminalità comune enfatizzati ad arte dai mass media per creare un clima generalizzato di paura. In questo contesto, c’è chi ha affermato che è innato nell’essere umano “il bisogno di sicurezza”, come hanno sostenuto alcuni  “post-freudiani” tra cui lo psicoanalista John Bowlby. Il bisogno di sicurezza innato metterebbe sullo stesso piano, in una prospettiva etologica e evoluzionista, l’uomo, primati come il Macacus rhesus, se non addirittura le anatre di quel nazista che fu Konrad Lorenz: saremmo allora tutti da considerare come bambini piccoli se non animali indifesi e in cerca di attaccamento e di rassicurazione, istintivamente portati ad evitare o a temere lo straniero, cioè lo sconosciuto. Lo Stato autorevole, per non dire totalitario, dovrebbe continuamente proteggerci e garantire la nostra sopravvivenza materiale e una pseudo identità che derivi dall’appartenenza a un regime: dovremmo però marciare irreggimentati come anatroccoli dietro mamma oca.

Ora è chiaro che l’unica sicurezza possibile è quella che deriva dalla affermazione di una sostanziale uguaglianza basata sul riconoscimento che la nascita è la stessa per tutti gli esseri umani per una dinamica che non prevede imprintings genetici o teorie organicistiche. La certezza psichica del proprio essere e la vitalità ad esso connessa ci dà la forza di resistere all’ingiustizia e alla violenza qualunque sia il contesto sociale in cui ci troviamo. Questo è il presupposto che dobbiamo porre alla base di un’azione politica, del rispetto dei diritti umani fondamentali per tutti, migranti compresi, che sono la fascia più debole e meno protetta della popolazione. Uno Stato come quello italiano, quando manifesti aspetti tipici del totalitarismo e condanni milioni di immigrati ad una apolidia de facto, ad una abolizione o sospensione del diritto di cittadinanza, è quanto di meno sicuro e di più pericoloso possa esistere. La ricerca di sicurezza nell’uomo forte, nel fascismo, nelle politiche securitarie e meramente poliziesche, nella xenofobia è un equivoco, tragico frutto dell’ignoranza e del revisionismo storico oltre che di un calcolo di alcuni politici che si pongono continuamente al centro dell’attenzione, come Donald Trump, con un retorica stolida e ripetitiva assecondata dai mass media e dagli indici di ascolto.

Il 24 marzo, a Washington e in molte altre città degli Stati Uniti e del mondo (sono 835 gli eventi annunciati), si terrà la prima March for our lives, cortei che vedranno sfilare ragazzi e ragazze per chiedere alla politica una risposta al dramma della diffusione delle armi da fuoco, e delle sempre più frequenti stragi. Dentro e fuori le scuole.

L’articolo di Domenico Fargnoli è tratto da Left n. 10 del 9 marzo 2018


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