La brigata Joyce sbarca in Irlanda, per festeggiare l’Ulisse e il Finnegans Wake. Performatività, mito, linguaggi, musica sono i punti cardinali di questo grande artista capace di parlare a generazioni future, lanciando un messaggio lungimirante di emancipazione

«È un giorno di metà giugno… sul teatro lungo la riva del fiume in alto sventola la bandiera… il dramma ha inizio. Un attore si fa avanti nell’ombra… è il fantasma, il re, re e non re, e l’attore è Shakespeare: ha studiato l’Amleto per tutti gli anni della sua vita che non fossero vanità allo scopo di recitare proprio la parte del fantasma».
Siamo alla National Library of Ireland, e nell’economia dell’Ulisse di Joyce è il 16 giugno del 1904. Chi parla è Stephen Dedalus, eteronimo joyciano per eccellenza. Ma siamo davvero là, a quell’ora, in quel giorno? O non ci troviamo forse a Southwark, sulle rive del Tamigi? Lì dove si ergeva un teatro, il Globe, regno di quello Shakespeare, attore e drammaturgo, marito e amante, padre di un figlio, Hamnet, che avrebbe prestato il nome al maggiore rampollo della sua mente (Hamlet) e persino al padre di questi (Re Amleto)?

La biblioteca nazionale era un centro di cultura laica nella Dublino di Joyce, e a guardarla ora non sembra cambiata tanto. Sopra l’entrata della sala principale campeggia una targa commemorativa proprio di quel bibliotecario che apre la scena del nono episodio dell’Ulisse più su citato. Al suo interno si tengono continuamente manifestazioni artistiche, mostre, conferenze pubbliche.

Quest’anno, per le celebrazioni del Bloomsday dell’Istituto di Cultura Italiana diretto dalla vulcanica Renata Sperandio, quella biblioteca tornerà, proprio come nell’Ulisse, a farsi palcoscenico: un palcoscenico tutto italiano. Il 15 giugno ospiterà le performance di un joycianissimo Alessandro Bergonzoni che duetterà con il funambolico Edoardo Camurri, e poi interverremo in dialogo anche noi due traduttori del Finnegans Wake. Il giorno successivo sarà la volta di una rassegna di canzoni italiane e irlandesi legate a Joyce, ad opera del cantante Simon Morgan insieme al professor Barry McCrea. Performatività, mito, linguaggi, musica. Sono i quattro punti cardinali dell’opera di Joyce, artista sempre più attuale e in grado di parlare, con lo stesso messaggio lungimirante di emancipazione, a generazioni che, per appartenere davvero al futuro, non possono non rivisitare criticamente il loro passato.

Joyce parla all’Irlanda come parla all’Italia, per dirci di…

Il reportage di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone prosegue su Left in edicola


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