Frequentano i salotti tv, hanno diritto di parola al pari degli antifascisti, godono di agibilità su quotidiani e riviste. Se l’ultradestra ha trovato uno spazio nel dibattito pubblico fino a poco fa impensabile, il (de)merito è anche di chi fa informazione. Ecco come ci si è arrivati

Un cumulo di lamiere e profilati di alluminio giace ai margini della cancellata che recinta lo spazio espositivo del Lingotto. Su uno di questi, l’unico colorato, spicca: “Altaforte edizioni”. È una fotografia che non dimenticheremo presto, quella che illustra la cacciata dal Salone del libro di Torino della casa editrice legata a CasaPound – che conta tra le sue “opere” il libro-intervista a Salvini – in seguito all’alzata di scudi di scrittori e politici. L’episodio, come prevedibile, ha innescato un aspro (ma necessario) dibattito pubblico.

È lecito invocare la “censura” – come alcuni hanno definito, erroneamente, una sana “pregiudiziale antifascista” – quando in ballo ci sono opere che si ispirano ai valori violenti dell’ultradestra? Quanto spazio è opportuno che una democrazia conceda a forze la cui ideologia è strutturalmente e dichiaratamente anti democratica?

I codici normativi, in circostanze del genere, c’entrano poco. D’altronde, le leggi Scelba e Mancino – nel caso – dovrebbero intervenire a priori. Sciogliendo i movimenti che aspirano a riorganizzare il partito fascista oppure condannando gesti, azioni e slogan legati a quella ideologia. Ma, una volta che tali gruppuscoli superano le larghe maglie della giurisprudenza, e si propongono nell’agone pubblico, il discorso si fa politico. E culturale. Un discorso che inizia ben prima della kermesse torinese, e che riguarda anche il giornalismo, cartaceo, digitale, televisivo, che sia. Esiste un modo giusto per parlare dei fascisti? È opportuno dar loro parola, legittimando le loro idee, e mettendole al pari di chi rispetta i valori antifascisti della Costituzione? Da un lato, gran parte del mondo liberale, assieme ovviamente alle destre, ritiene giusto dare cittadinanza alle opere e alla voce dell’estrema destra. Spesso smitragliando la più famosa storpiatura di Voltaire: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire» (frase che in realtà non ha mai pronunciato). Per poi, in caso di interlocutori particolarmente insistenti, agguantare al volo l’arma di scorta: l’evocazione del «fascismo degli antifascisti» di Pasolini (altra frase fake, mai proferita né scritta dall’autore a cui è attribuita).

Inoltre, dice chi difende le ospitate dei nostalgici del Ventennio, se queste formazioni sono regolarmente candidate alle elezioni e dicono di voler abbandonare la violenza, chi siamo noi giornalisti – ma il discorso potrebbe valere per qualsiasi operatore culturale – per escluderle? Il punto è che il presentarsi alle urne non è affatto garanzia di rifiuto dei valori fascisti. Pensarlo significa non fare i conti con la realtà. E basti, a dimostrazione, una rapida occhiata all’archivio web curato dal progetto Ecn Antifa, che monitora quotidianamente gli innumerevoli episodi di aggressione e violenza attribuiti a formazioni neofasciste come CasaPound (70 negli ultimi 5 anni) e Forza nuova.

Quella liberale, insomma, è un’idea distorta di libertà. Luigi Manconi, a proposito delle intenzioni di alcuni autori televisivi di organizzare un dibattito sul tema “I lager non sono mai esistiti”, con ospiti favorevoli e contrari, sullo stesso piano, ha parlato di «un’interpretazione, per così dire, illimitata e incondizionata del pluralismo». «Una concezione tecnica e neutrale – ha precisato in un corsivo su Internazionale – della dialettica democratica e del libero confronto tra opzioni diverse. In altre parole, una manifestazione estrema e pienamente compiuta della lottizzazione delle idee, nella sua rappresentazione plastico-teatrale». Un’idea aberrante, figlia del pensiero neoliberale, che difatti si conferma il miglior fertilizzante per il fascismo.

Vauro, con la sua tagliente ironia, ha sintetizzato il concetto in uno dei suoi capolavori disegnato per il nostro settimanale. Titolo: Libertà di opinione. Immagine: un camerata che strilla: «Ti stupro!». Più chiaro di così. Il punto è che i media mainstream, fiutata l’attenzione morbosa che un racconto pruriginoso e estetizzante dell’estrema destra avrebbe potuto fruttare, spesso non si sono fatti troppi problemi. E hanno aperto le porte a forze prima ai margini dello spazio pubblico. Il più delle volte, senza premurarsi di svolgere il proprio compito di garanzia dei valori democratici, presentando questi figuri senza mediazione, oppure trattando i loro valori violenti con leggerezza. Con una «superficialità dovuta anche ad ignoranza e a una sommaria rincorsa dell’audience», come ha detto lo storico Peppino Ortoleva su queste pagine.

Siamo dunque andati a ripercorrere la genealogia dello sdoganamento dei neofascisti sui media italiani. Mettendo insieme una rassegna di episodi che non ha la pretesa di essere esaustiva, ma che fissa nero su bianco le tappe chiave di questa indecente ripulitura del vero volto dei gruppi neofascisti. Buona lettura

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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