Alta tensione nel Golfo persico dove gli Usa hanno ammassato imponenti forze militari. La preoccupazione di Teheran - che vuole costringere gli europei a intervenire - è palpabile. Anche perché le sanzioni hanno provocato una delle peggiori crisi economiche della storia

Toni apparentemente distensivi seguiti da dichiarazioni minacciose: da quando è diventato inquilino della Casa Bianca, il presidente Usa Donald Trump ci ha ormai abituato a questi cambi repentini di posizione. La possibile guerra Stati Uniti-Iran, ritornata in prima pagina nelle ultime settimane, non fa eccezione. Nel giro di qualche ora, il leader repubblicano è passato la scorsa settimana da una “tranquillizzante” intervista su Fox News in cui affermava di essere «uno a cui non piace andare in guerra, perché i conflitti danneggiano le economie e soprattutto uccidono le persone» a postare un tweet bellicoso in cui dichiarava che «se l’Iran vorrà combattere, sarà ufficialmente la sua fine».

Dichiarazioni diverse nei toni, ma che partono da uno stesso principio: l’Iran non dovrà «mai» dotarsi di armi nucleari. Cosa che in effetti è avvenuta: a sostenerlo è l’Agenzia internazionale per l’energia atomica che in questi anni ha più volte certificato il rispetto dell’Iran delle clausole dell’accordo sul nucleare (JCPOA) raggiunto nel 2015 dall’attuale ministro degli esteri iraniano Zarif con il 5+1 (gli Usa sotto l’allora presidenza Obama, Ue, Francia, Germania, Cina e Regno Unito). Nelle tre ultime settimane la tensione è però tornata a salire nel Golfo Persico: gli Stati Uniti hanno ammassato imponenti forze militari nelle basi e postazioni americane sparse nelle ricche petromonarchie arabe. Oltre alla portaerei Uss Abraham Lincoln e ai quattro bombardieri B-52, gli Stati Uniti hanno schierato anche una batteria anti-missile Patriot e un’altra nave da guerra (la Arlington) che trasporta mezzi anfibi e veicoli. La militarizzazione dell’area era programmata da tempo ma, come ha precisato il Consigliere della sicurezza nazionale Usa John Bolton, è stata accelerata dalle «informazioni» fornite da alcune fonti israeliane su un «imminente attacco iraniano» contro target americani nel Golfo.

Nonostante il grosso dispiegamento di truppe e armi nella regione (venerdì Washington ha annunciato l’invio di 1.500 soldati in Medio Oriente in chiave «protettiva»), nessuno dei principali attori regionali dichiara pubblicamente di volere la guerra. Non la vogliono apparentemente né gli Usa – sebbene il falco Bolton abbia una posizione interventista –, né tanto meno i suoi alleati sunniti a Riad, l’asse portante insieme ad Israele della “Nato araba” pensata da Trump in chiave anti-Iran. Domenica il ministro degli esteri saudita Adel Jubeiri è stato chiaro: «Il regno dell’Arabia Saudita non vuole una guerra, ma qualora l’altra parte [Iran] la volesse, lotteremo con tutte le nostre forze e determinazione per difenderci e salvaguardare i nostri interessi». Su una posizione difensivista si pone anche l’Iran.

Se da un lato il suo ministro agli esteri Zarif ha criticato la debolezza dell’Unione Europea rispetto alle nuove pressioni dei «bulli» americani («una minaccia alla pace e sicurezza internazionale») ribadendo domenica che «Tehran si difenderà da ogni aggressione militare ed economica», dall’altro ha chiesto alla comunità internazionale «passi concreti per la pace» attraverso la normalizzazione delle relazioni economiche tra Bruxelles e Teheran pesantemente colpite dal ripristino delle sanzioni Usa. Parole apparentemente distensive le ha pronunciate una decina di giorni fa anche la Guida Suprema iraniana l’Ayattolah Ali Khameni: «Il conflitto non ci sarà, ma la nazione iraniana ha scelto la strada della resistenza». La preoccupazione a Teheran è però palpabile: il presidente iraniano Rouhani, attaccato duramente dalle forze conservatrici contrarie sin dall’inizio al compromesso politico con l’Occidente, ha chiamato all’unità le fazioni politiche perché il Paese potrebbe affrontare condizioni «più dure di quelle sofferte negli anni ‘80 durante gli otto anni di guerra con l’Iraq». Un risultato politico finora le sanzioni Usa lo hanno ottenuto: l’uscita di Teheran (in parte) dall’accordo sul nucleare. La decisione, annunciata lo scorso 8 maggio, prevede il mancato rispetto da parte dell’Iran di alcuni impegni previsti dall’intesa del 2015 come il mantenimento nel paese delle riserve di uranio arricchito e acqua pesante (300 chili) che avrebbero dovuto essere vendute e la minaccia che l’arricchimento dell’uranio riprenderà qualora, passati 60 giorni dal suo annuncio, le sanzioni su esportazioni di greggio e settore bancario non saranno rimosse. La mossa degli iraniani è chiara: costringere gli europei a intervenire.

Con Bruxelles, in fondo, qualche margine di dialogo è possibile dato che l’Unione europea ha provato timidamente a difendere l’intesa. Tuttavia, la disposizione di Rouhani ha al momento generato reazioni negative in Europa. L’Iran – si legge in una dichiarazione dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini e dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito – deve continuare ad attuare pienamente i suoi impegni sul nucleare e ad astenersi da qualsiasi escalation. La guerra tra Washington e Teheran non appare tradursi al momento in un confronto militare. Eppure i segnali che giungono dalla regione non sono affatto tranquillizzanti: lo staff straniero della Exxon Mobil è stato evacuato dall’Iraq; il Bahrain ha avvertito i suoi cittadini di non recarsi in Iraq e Iran a causa delle loro «condizioni di instabilità»; a Washington ufficiali americani hanno chiesto ai piloti di voli commerciali di prestare massima attenzione quando sorvolano il Golfo Persico e quello dell’Oman. Disposizioni che sono conseguenze dirette del sabotaggio di due petroliere saudite due settimane fa al largo delle coste dell’emirato di Fujairah (Emirati Arabi Uniti) attributo agli yemeniti houthi sostenuti dall’Iran e l’esplosione avvenuta domenica fuori il compound dell’ambasciata Usa nella “Zona Verde” di Baghdad.

Secondo alcuni commentatori la guerra tra Iran e Usa è ormai alle porte. Tuttavia, sottolinea Nicholas Kristof sul New York Times, «noi già siamo incastrati in un altro conflitto, quello yemenita, dove siamo complici dell’uccisione di quasi 250mila persone, molti dei quali bambini morti di fame». Kristof scrive che «in questo clima di tensione, l’Arabia Saudita spingerà gli Stati Uniti a bombardare l’Iran». Bombe sì o bombe no è per certi versi una questione di lana caprina perché la guerra contro Teheran di Washington è già iniziata lo scorso anno quando Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare e riattivare le sanzioni (a cui si sono aggiunte quelle recenti all’export iraniano di alluminio, acciaio, rame e ferro). Una mossa che ha provocato una delle peggiori crisi economiche della storia dell’Iran: il valore del rial è crollato, l’inflazione è salita, ed è aumentato il tasso di disoccupazione.

«Dalla crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana del 1979, gli iraniani temono ogni giorno un possibile scontro tra l’Iran e gli Usa. Sono perciò in qualche modo vaccinati rispetto a quello che sta succedendo ora anche se non vogliono un’altra guerra che potrebbe avere effetti ancora più devastanti di quella contro Saddam degli anni ’80», spiega a Left il ricercatore universitario iraniano Armin Siyavash. Secondo Siyavash, al momento è difficile ipotizzare un confronto militare diretto, ma la guerra economica contro l’Iran e quelle per procura in Siria e Yemen sono già in corso. «Il problema – conclude Siyavash – è che al momento immaginare di risolvere le tensioni nell’area è pura fantasia perché non c’è una reale volontà a dialogare tra le parti».

L’articolo di Roberto Prinzi è stato pubblicato su Left del 31 maggio 2019


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