La ricerca di Matteo Dominioni sulle tante pagine nascoste del colonialismo italiano in Africa oggi risulta ancora scomoda. «Purtroppo l’italiano medio sa del passato ma lo giustifica per cinismo», dice l’autore de “I prigionieri di Menelik”

Il velo calato sul colonialismo italiano va lacerato, lo scriviamo spesso. L’immenso lavoro di ricostruzione di una memoria negata e annullata fatto in decine di anni da Angelo Del Boca, scomparso di recente, e da pochi altri storici ha dato però i suoi frutti. Esiste nel Paese un cospicuo nucleo di giovani che ha proseguito i loro lavori e continua a far riemergere il passato. Fra questi Matteo Dominioni, che di Del Boca è stato allievo, ha pubblicato recentemente per Mimesis I prigionieri di Menelik, storie di soldati italiani nella guerra d’Abissinia. Il volume parte dalla sconfitta italiana di Adua (primo marzo 1896) ma non si sofferma sulla battaglia che rappresentò un’onta per il Regno d’Italia. A Dominioni interessa indagare le storie di coloro che furono fatti prigionieri e le ripercussioni in patria di quella sconfitta. L’inferiorità numerica, l’aver sottostimato le capacità dell’avversario, gli errori, portarono ad una disfatta con 4.424 perdite da parte italiana. Inoltre, 1.744 militari italiani vennero presi e condotti ad Addis Abeba o in altre città etiopi restando per quasi un anno prigionieri. Da quest’ultimo aspetto parte la ricerca di Dominioni che compone un mosaico complesso, scomodo alla retorica nazionalista.

«Ho lavorato su fonti di archivio, attingendo ai verbali redatti dai carabinieri che, già sui piroscafi che riportavano a casa i prigionieri rilasciati, li interrogavano – racconta Dominioni a Left. La prima cosa da dire è che, nonostante il loro numero non fosse rilevante, le loro vicende ebbero un forte impatto sulla vita politica e sociale del Paese. Vi sono state manifestazioni contro la guerra, gruppi di aiuto e missioni umanitarie per i sopravvissuti. Al loro ritorno sono usciti solo alcuni memoriali. Io ho potuto trovare le fonti primarie, dall’ufficiale che si esprimeva in modo colto al soldato che scriveva come poteva. Ho scoperto addirittura dopo l’uscita del libro, che il primo allenatore della Lazio era stato ad Adua, come mi hanno riferito da un’associazione di tifosi. Questa storia ha un significato particolare. Oggi i prigionieri di guerra, pensiamo ad esempio ai recenti conflitti in Iraq o in Afghanistan, si liberano con le forze speciali, allora erano considerati traditori. Con Adua lo schema si rompe, molti hanno combattuto fino alla fine, sono stati feriti e non potevano che arrendersi. In questa vicenda nasce anche il mito, amplificato dal…


L’articolo prosegue su Left del 10-16 settembre 2021

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