Il nuovo libro dello storico Eric Gobetti, "I carnefici del duce”, ricostruisce le storie e le vite di uomini del regime che massacrarono popolazioni inermi e propone una importante riflessione sul perché persone apparentemente “normali” divennero assassini
C'è un elefante nella stanza. È nero ed è costellato di lame, proiettili, bombe e gas. Armi, con cui l’Italia ha sottomesso e massacrato popolazioni inermi sin dalla nascita del Regno, con buona pace degli ideali risorgimentali di libertà e autodeterminazione dei popoli. Gli occhi dell’elefante sono forse quelli di Saša Božović, studentessa montenegrina antifascista che partorì sola in presenza dei carcerieri italiani, o quelli di Umberto Graziani, sarto del campo di concentramento italiano di Arbe, in Dalmazia, che entrò nella resistenza jugoslava. Le zampe dell’elefante sono forse le gambe di migliaia di etiopi, soprattutto vecchi, donne e bambini, che si lanciavano fuori dalle loro case e correvano nella savana del proprio Paese invaso sotto il bombardamento coi gas di Mussolini che soffocavano e liquefacevano i loro corpi; o forse quelle, che sgambettarono inutilmente nella melma, di decine di bambini sloveni annegati nel campo di Arbe sotto gli occhi indifferenti dei soldati italiani di guardia. E le zanne dell’elefante sono fatte forse dello stesso avorio misto all’oro dei denti che Saša si strappò da sola per comprare al figlio, appena nato, pane verde di muffa. C’è un elefante nella stanza. È questa un’espressione che si usa per riferirsi a traumi irrisolti, ad avvenimenti annullati dalla coscienza che impediscono la naturale evoluzione dell’essere umano, spiega Eric Gobetti nelle prime pagine de I carnefici del duce appena uscito per Editori Laterza, in questo caso un Paese intero, «l’Italia, che si rifiuta di ammettere i propri errori e pretende di essere considerato sempre innocente». Questo articolo è riservato agli abbonati
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