I guasti del populismo penale, il reato di tortura sotto attacco, la vita intollerabile nei Cpr. Il Garante nazionale delle persone private di libertà, al termine del suo mandato, racconta un’umanità fuori dai radar
Detenuti nelle carceri, autori di reato con patologie psichiatriche nelle Rems, stranieri nei centri per il rimpatrio. Sono coloro che dal 2016 ha incontrato Mauro Palma, presidente del Garante nazionale delle persone private di libertà arrivato adesso allo scadere del suo mandato (le altre componenti del Collegio sono Daniela De Robert ed Emilia Rossi). L’ultima Relazione al Parlamento, corredata da un corposo dossier, non solo rappresenta una fotografia reale delle condizioni di vita di migliaia di cittadini fuori dai radar, ma è anche uno strumento di riflessione sui diritti umani negati. Come scrive Palma, tra i maggiori esperti a livello internazionale in tema di lotta alla tortura e ai trattamenti inumani, l’attività del Garante è un contributo di soft law che, basandosi «sull’esperienza dell’aver visto e del vedere», fornisce «elementi di analisi e interpretazione all’impianto dell’hard law». Il Garante infatti formula precise Raccomandazioni alle autorità responsabili, anche se talvolta non vengono accolte, come per esempio quella, subito dopo le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che indicava la necessità di introdurre elementi identificativi sulle divise degli agenti della polizia penitenziaria. Il ministro Nordio, mentre scriviamo, sta decidendo la composizione del nuovo Garante. Qualsiasi sia la decisione, dice Palma, «darò tutto l’appoggio mio e dell’ufficio professionalmente costruito in questi sette anni e mezzo». Mauro Palma, partiamo dalla visione culturale che traspare dalla sua Relazione. Il Garante, oltre alla funzione di prevenzione e garanzia dei diritti, può contribuire alla consapevolezza collettiva su questi temi? Sostanzialmente deve dare la consapevolezza. Per carità, la tutela giuridica dei diritti è molto importante, ma questo tipo di controllo non può esistere se non c’è un controllo sulla cultura complessiva, sulla cultura che riconosce il molteplice, cioè riconosce l’essere in tanti modi, le diversità. Riconosce che c’è anche chi ha sbagliato, chi ha una particolare difficoltà di espressione - mi riferisco ad altri luoghi rispetto al carcere - ma lo riconosce come sé, non come un altro che io vado a proteggere. E allora le parole escludenti come “Chiudiamoli e buttiamo la chiave”, il linguaggio che fissa una differenza, sono qualcosa che fanno perdere questa consapevolezza.

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