Nel suo nuovo libro Enrico Terrinoni indaga l’amicizia “geniale” fra i grandi due autori. L’irlandese Joyce, in fuga dal giogo dell’impero britannico e della Chiesa cattolica, trovò in Svevo un’àncora non solo materiale
«Trieste è un posto di transizione geografica, storica, di cultura, di commercio, cioè di lotta», scriveva nel maggio del 1912 su La Voce il letterato triestino Scipio Slataper. «Ogni cosa è duplice o triplice a Trieste, cominciando dalla flora e finendo con l’etnicità». La descrizione che fa Slataper della sua città è emblematica e mette a fuoco le caratteristiche di un luogo chiave della Mitteleuropa, allora porto strategico dell’Impero austro-ungarico, e crocevia dei destini di tanta storia del Novecento. Destini collettivi e individuali, come quelli di molti grandi scrittori: oltre allo stesso Slataper, tra gli altri spiccano i nomi di Umberto Saba, Biagio Marin, Carlo Michelstaedter, Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) e quello di un illustre triestino d’adozione, il più illustre di tutti: James Joyce. Egli arrivò nella città friulana a ventidue anni il 20 ottobre del 1904, con la compagna Nora Barnacle. Il loro primo figlio nascerà proprio a Trieste l’anno seguente e avrà nome italiano, Giorgio, così come la seconda figlia Lucia.

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