Prima dell'attacco di Hamas del 7 ottobre, prima dell'assedio e dei bombardamenti a tappeto di Gaza da parte delle forze israeliane, come si viveva in Palestina? Lo racconta un denso numero di The Passenger con reportage dal carcere a cielo aperto di Gaza, dal campo profughi di Jenin, da Gerusalemme Est dove sono in atto da anni operazioni di pulizia etnica. La rivista edita da Iperborea sarà presentata a Più libri più liberi a Roma

Generazione Gaza s’intitolava un numero di Left in cui cercavamo di capire cosa pensa la gioventù palestinese stretta fra l’occupazione militare israeliana e il giogo di Hamas. Non ci sono sondaggi, ma dalle testimonianze che avevamo raccolto e che abbiamo continuato a raccogliere emerge con chiarezza la dura quotidianità di una nuova generazione (il 30 per cento della popolazione a Gaza ha meno di 15 anni) senza rappresentanza, che ha sempre vissuto in quel carcere a cielo aperto, che non ha conosciuto altra realtà, ma che sa immaginarla, provando a bucare i muri e la sordità internazionale con video, docufilm, registrati con i cellulari e con mezzi di fortuna. In Italia il Nazra Palestine short film festival, rassegna cinematografica itinerante, ha il merito di avergli offerto una finestra e ora molti di quei lavori si possono vedere gratuitamente sul sito del festival (nazrashortfilmfestival.wordpress.com).

Per capire come si viveva nella Striscia, quali già erano gli enormi problemi economici, sanitari umanitari – prima del  del criminale di Hamas  e prima dell’assedio e bombardamento israeliano che ha quasi raso al suolo Gaza- il consiglio è leggere il numero monografico della rivista-libro The Passenger, edita da Iperborea e dedicato alla Palestina. Un numero bellissimo e toccante, che offre un importante approfondimento con contributi di scrittori e attivisti, che si alternano nel dare voce a chi non ha voce nella città di Gaza, occupata da Israele fin dal 1967 (nel silenzio internazionale e in violazione della risoluzione Onu nr. 242/67) a chi vive in Cisgiordania dove l’Autorità palestinese, ala laica e socialista, erede di Arafat è contestata perché non indice elezioni da molti anni (per il timore che Hamas possa vincere anche in questa regione).

Ciò che The Passenger ci racconta di più rispetto alle cronache che leggiamo sui giornali e vediamo in tv è come vivono da anni i palestinesi, da stranieri nella loro terra. E lo fa attraverso intensi reportage, alcuni anche di spessore letterario. Lo scrittore e avvocato Raja Shehadeh, per esempio, racconta che come tanti altri palestinesi amava camminare sulle colline intorno a Ramallah, ma l’espansione degli insediamenti dei coloni israeliani impedisce ora anche questa possibilità. «Partire per una sarha significa lasciarsi andare. È una cosa tutta palestinese, uno sballo senza droghe. Ma oggi – scrive – è diventato impossibile dedicarsi alla sarha per via del continuo aumento degli avamposti e degli insediamenti israeliani, ormai più di 419, e dei reiterati atti di violenza compiuti dai coloni ai danni dei palestinesi». Shehadeh spiega anche come sia avvenuto tutto questo: «Qui è in atto un processo di colonizzazione per il quale un gruppo religioso utilizza un ingente afflusso di capitali provenienti soprattutto dagli Stati Uniti per impadronirsi della terra di proprietà dei nativi palestinesi, al fine di edificare insediamenti e infrastrutture sempre più estesi a uso esclusivo dei cittadini israeliani».

Ramallah, Palestine: Manwa Shaheen is the wife of Ahmad who was arrested in 2001 and sentenced to 22 years in prison. (ph. Antonio Faccilongo)

Il processo è cominciato molti anni fa, addirittura dopo gli accordi di Oslo del 1993-1995, ma da quando il governo di destra e i partiti dei coloni sono al potere la situazione è precipitata, sostiene l’avvocato e scrittore: «Ora, sempre più spesso, si sente il ritornello: “Non vogliamo palestinesi sulla terra che ci è stata data da Dio”. Sono da tempo quotidiani gli atti di violenza perpetrati dai coloni ai danni di agricoltori, pastori e raccoglitori di olive allo scopo di spaventarli e costringerli ad andarsene».
Dai dintorni di Ramallah, al cuore della città, da sempre quartier generale dell’Autorità palestinese, in cui i giovani ormai non si riconoscono più. La scrittrice Taiye Selasi (autrice de La bellezza delle cose fragili, Einaudi) indaga su un tabù: è possibile un amore fra israeliani e palestinesi? Lo fa a partire dalla storia di vita del poeta palestinese Mahmud Darwish e componente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che si innamorò di una ragazza israeliana. Morto a 67 anni, il poeta nazionale palestinese era nato nel 1941 nel villaggio di Birwa da cui la sua famiglia dovette fuggire quando fu occupato nel 1948. Ha scritto molti testi sulla lotta di indipendenza del suo popolo, criticando l’occupazione militare israeliana. Nelle sue poesie dava voce alle sofferenze dei rifugiati dopo la Nakba. «Il cuore del lavoro poetico di Darwish – scrive Selasi – era affermare con forza la comune appartenenza all’umanità». Con la forza della poesia lottava contro la deumanizzazione strategica imposta dallo Stato di Israele e contro la deterritorializzazione del popolo palestinese, anche il suo contrastato amore per Rita, la cui reale identità rimase nascosta per anni, racconta come pubblico e privato, scrittura e biografia non conoscessero in lui scissioni.

L’ultimatum di Israele ai civili di Gaza, intimando di lasciare le loro case, pena il rischio di essere uccisi, ha riaperto antiche ferite, non solo quella storica della Nakba, l’esodo forzato dei palestinesi nel 1948, ma anche quelle più recenti. L’ultimatum echeggia le operazioni di pulizia etnica a Gerusalemme est: nel quartiere di Sheikh Jarrah lo Stato israeliano ha consentito indebite cacciate di palestinesi come abbiamo documentato a più riprese su Left. Su questo numero di The Passenger ne scrive Nour Abuzaid, del gruppo di ricerca Forensic Architecture, documentando una serie di azioni di deliberata pulizia etnica messe in atto nel quartiere. Tutta l’operazione è culminata nell’ottobre del 2021 con una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano che ha definito movimenti terroristici sei tra le principali organizzazioni palestinesi che lottavano democraticamente per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi residenti. «Una pronuncia calunniosa – scrive Nour Abuzaid – che mira a indebolire i loro tentativi di ristabilire la verità e la giustizia, e di accertare le effettive responsabilità».

Occupied Palestinian Territories, West Bank, Za’tara, 06 January 2013
Hayat (left) teaches yoga to the residents of her village, Zataara, on the outskirts of Bethlehem in the West Bank. The women are increasing in number each week (ph. Tanya Habjouqa-Noor)

Per capire più a fondo i meccanismi della politica di esproprio e di frammentazione del territorio palestinese particolarmente utile è l’intervento della nota giornalista israeliana Amira Hass, fra le voci più critiche del governo di Bibi Netanyahu, che su The Passenger denuncia una pianificata operazione per sezionare il territorio palestinese costruendo quartieri di lusso, immersi nel verde e per soli ebrei. «Tutto avviene con fredda efficienza chirurgica grazie all’appoggio di leggi e al supporto di una sofisticata propaganda unita da una spinta di matrice religiosa». Ovvero, spiega Hass, la frammentazione del territorio viene giustificata «con motivi di sicurezza oppure invocando una promessa divina contenuta nella Torah». Si tratta di «uno stupro del territorio seriale e di massa», scrive Amira Hass ed ha un preciso scopo: «La israelizzazione tramite la progettazione degli spazi trasmette un messaggio inequivocabile: i palestinesi sono superflui e non appartengono a questo luogo». Dunque si possono anche rinchiudere in un ghetto.

Ed eccoci ad Gaza che era già una prigione a cielo aperto prima di questa violenta controffensiva di Israele in risposta alla strage del 7 ottobre compiuta da Hamas. Su The Passenger Asma’ al-Atwna, ricercatrice e scrittrice, racconta cosa significa crescere a Gaza, uno dei luoghi più densamente popolati al mondo, in una città sotto il giogo conservatore, patriarcale, a cui si è aggiunto quello fondamentalista di Hamas, che ha vinto le elezioni nella Striscia nel 2007. «Da allora la popolazione, che conta più di 2 milioni di persone, è stata sottoposta a un blocco areo marittimo e terrestre che impedisce di entrare e uscire da questo fazzoletto di terra, che si estende per 41 km. Il blocco ha causato il deterioramento delle condizioni economiche, sanitarie e sociali per gli abitanti della Striscia». Aiutata da un suo professore dell’università, Asma è riuscita a fuggire da Gaza dopo un pestaggio subito da suo padre perché lei non portava il velo e protestava contro i matrimoni combinati di cui erano vittime le sorelle. «Ho scelto di vivere in esilio dal 2001- racconta Asma – non ho mai pensato di tornare a Gaza, soprattutto dopo che Hamas ha preso il potere nel 2007. Il popolo di Gaza ha votato per l’organizzazione islamista pensando che l’avrebbe salvato dall’Anp, con il suo sistema mafioso e autoritario. Oggi vive nella prigione di Hamas, dentro la prigione a cielo aperto che è Gaza. Negli anni successivi Hamas ha imposto il velo alle donne e ha istituito la polizia morale per opprimerle».

In questo viaggio in Palestina guidati da The Passenger arriviamo infine nel campo profughi di Jenin, simbolo della resistenza contro l’occupazione israeliana. Gli edifici sono crivellati di proiettili e coperti di manifesti di attivisti uccisi. «Qui – racconta la giornalista Yumna Patel- vivono e hanno vissuto diverse generazioni di rifugiati e la stessa esistenza del campo sono la testimonianza di tre quarti di secolo di esilio, della Nakba- catastrofe che ha plasmato una nazione e un intero popolo». Nel campo di Jenin vivono 15mila palestinesi, è uno dei 19 campi profughi esistenti in Cisgiordania. È stato creato nel 1948, all’indomani della Nakba, quando circa 750mila palestinesi furono cacciati dalle proprie case ad opera delle milizie sioniste e del neonato Stato di Israele. Oggi le nuove generazioni imbracciano i fucili, sotto continui raid israeliani. Sono giovani che non hanno avuto un’infanzia, fin da piccolissimi hanno visto persone uccise ogni giorno non solo “combattenti” ma anche donne e bambini. Hanno vissuto un’occupazione e un’oppressione via via sempre più crudele. E sentono di non aver altra via che difendersi e resistere. «Chiunque pensi che uccidere e distruggere possa portare pace e salvezza alla sua gente è un illuso», dice Mohammed al Sabbagh, capo del comitato popolare del campo a Yumna, riferendosi alla politica israeliana di effettuare raid sul campo. «Questa politica costerà cara a tutti, palestinesi e israeliani e non porterà né pace né salvezza, né sicurezza a nessuno». Parole più attuali che mai.

Foto in apertura di Paddy Dowling, courtesy The passenger (Iperborea)