Il padre della relatività, abituato a immaginare l’invisibile, aveva intuito che per farla finita una volta per tutte con la guerra più che interrogare la ragione occorreva esplorare il non cosciente
La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?». A porla non è certo uno qualunque, ma Albert Einstein il 30 luglio del 1932 in una lettera scritta da Potsdam a Sigmund Freud. Lo scienziato aveva scelto il padre della psicoanalisi come suo interlocutore quando la Società delle Nazioni si era rivolta a lui per promuovere un dibattito epistolare su temi di interesse generale fra gli intellettuali di spicco dell’epoca. Einstein, in quel 1932, a un passo dall’ascesa al potere di Adolf Hitler, decide di interpellare colui che si vantava di aver scoperto l’inconscio per discutere di una questione non da poco, su cui i filosofi da secoli avevano dibattuto senza però arrivare a una risposta esauriente ed esplicativa: la necessità o meno della guerra nella risoluzione dei conflitti. Freud riceve la lettera nell’agosto e, anche se considera quel dibattito «noioso» e «sterile», manda il mese successivo la sua risposta, in cui, dopo una lunga argomentazione, conclude «non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini».
Di lì a breve il nazi-fascismo imperante in Europa e lo scoppio della seconda guerra mondiale confermeranno le parole di Freud che gela le speranze dello scienziato che, invece, auspicava l’istituzione di un organismo politico sovranazionale che intervenisse nelle contese tra gli Stati.
Il confronto Freud-Einstein rimanda a un altro confronto che è possibile stabilire tra altri due “colossi” del pensiero occidentale: Immanuel Kant (1724-1804) e Friedrich Hegel (1770-1831). Il primo, con un libretto scritto nel 1795 (Per la pace perpetua), all’indomani del “periodo del terrore” della Rivoluzione francese, delineava tre condizioni affinché i Paesi riuscissero a convivere pacificamente: la forma repubblicana come governo; un organismo sovranazionale per mettere d’accordo in caso di contesa; infine un sentimento di cosmopolitismo che induca gli uomini a considerare il mondo una patria universale.
Secondo il filosofo illuminista gli individui hanno sì istinti bestiali ed egoistici che li conducono verso guerre e violenze - e così anche gli Stati - ma detengono anche la ragione, la quale potrà dirimere i contrasti e trovare soluzioni, garantendo l’uscita dallo “stato di guerra” hobbesiano. Sarà dunque la ragione a indurre gli uomini al mantenimento della pace.
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