Lo Stato come motore per l’innovazione e lo sviluppo dell’economia: questo è l’obiettivo strategico per le forze progressiste. Perché la realtà del tessuto produttivo italiano è sempre più grave
La parola “deindustrializzazione” pesa come un incubo sul nostro Paese. Esempi eclatanti di sfaldamento del nostro tessuto produttivo sono lo stato comatoso di Acciaierie d’Italia (l’ex-Ilva) e l’andamento della produzione automobilistica negli stabilimenti Stellantis, azienda in cui prevale, su quella italiana, la componente francese. Cosa succederà? Un report della Cisl, del 5 gennaio scorso rileva che, solo per fare esempi relativi ad alcuni stabilimenti del gruppo, la produzione nel polo di Torino raggiunge le «85.940 unità ottenendo un -9,3% rispetto al 2022, un dato negativo dopo tre anni di salita produttiva»; nel Plant di Cassino «sulla linea Maserati la situazione della produzione è molto più critica. Sul fronte produttivo si sono raggiunte le 8.680 unità con i 5 modelli (Gt, Gc, Levante, Ghibli e Qp), -49% rispetto al 2022». Ci sono anche altri dati. Il punto emerge nelle considerazioni sul Piano industriale del gruppo, ove il sindacato afferma: «Sono molte le situazioni di crisi nel settore auto che si stanno determinando pesantemente: Marelli di Crevalcore, Bosch di Bari, Denso di San Salvo, Lear, Te Connectivity, le aziende che producono sistemi di scarico. Bisogna accorciare la catena di fornitura, portando in Italia le produzioni di tutta la componentistica che rappresenterà l’auto del futuro, dai semiconduttori, alle batterie, ai componenti per la motorizzazione elettrica, per la guida autonoma, per la digitalizzazione e la connettività. Senza un piano per la transizione industriale attivabile immeditamente, il rischio licenziamento e desertificazione industriale diventa certezza». Guardando lo scenario rappresentato da queste e molte altre vicende, si compone il panorama del declino della capacità industriale del nostro Paese. La seconda potenza industriale d’Europa si trova a fare i conti con problemi sostanziali che risalgono agli ultimi decenni e che sono stati, perlopiù, ignorati.
Stagnazione della produttività, ergo dei salari
Consideriamo questo percorso declinante con le sue conseguenze sociali, attingendo al rapporto Inapp 2023. Ricordiamo che l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (ex Isfol) è un Ente di ricerca che fa capo al ministero del Lavoro e si occupa di studiare e valutare le politiche relative al mercato del lavoro. In Italia spiega il rapporto, i salari reali sono di fatto fermi al 1991, con un’impalpabile crescita dell’1% tra quell’anno e il 2022. Nello stesso periodo la crescita media delle retribuzioni nell’area Ocse è stata del 32,5%. Un divario analogo si presenta per la produttività del lavoro. Infatti, spiega il rapporto «a partire dalla seconda metà degli anni 90 la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%». L’incremento del Pil per ora lavorata in Italia si assesta, tra il 1991 e il 2022, intorno allo 0,2% mentre nell’area del G7 supera lo 0,4%. Osserva il rapporto che «negli anni 90, inoltre, si spezza anche quel legame tra salari e produttività del lavoro che aveva caratterizzato il nostro sistema economico fino ad allora». Insomma, la stagnazione della produttività, produce la stagnazione dei salari.
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